
Questi i punti essenziali. Secondo Lozano, la macchina andava troppo veloce. I periti hanno verificato che nel momento di massima velocità la Toyota andava a 65 chilometri all’ora. Lozano afferma che quando la macchina si trovava a 100 metri dal checkpoint (tutti i media americani parlano di checkpoint, in realtà si trattava di una pattuglia mobile collocata fuori dalla strada, dietro a una curva) ha cominciato a dare avvertimenti per fermarci: prima una luce, poi a 80 metri spari, infine, quanto la macchina era a 60 metri è stata presa di mira. La perizia della magistratura sostiene invece che la prima raffica (in totale sono tre) è stata sparata quando la macchina si trovava a 100-130 metri dalla pattuglia. Infine, Lozano sostiene di avere sparato davanti alla macchina, poi alle ruote e al motore. I periti hanno invece accertato che dei 58 colpi che hanno colpito la macchina, 57 erano diretti contro i passeggeri e solo l’ultimo contro il motore, quando la macchina era già ferma. Dunque, dicono gli esperti, ha sparato per uccidere. Da qui l’accusa di omicidio volontario.
Perché Lozano non viene a presentare la sua versione dei fatti al processo? Per lui, quello che inizia martedì a Roma è solo un «processo-spettacolo». Un disprezzo della magistratura italiana che meriterebbe qualche presa di posizione da parte del nostro governo. E se si tratta di una farsa perché si agita tanto e si affanna a ribadire la versione della commissione militare americana, già smontata dal rapporto Campregher-Regaglini, dal nome dei due italiani che ne facevano parte?
In un punto tuttavia Lozano si discosta dal rapporto militare, secondo il quale, dopo la sparatoria, lui, scioccato, fu allontanato dai passeggeri e furono gli altri soldati della pattuglia ad avvicinarsi a Nicola Calipari e a me. Lui invece si assume anche il ruolo di avermi soccorsa e di avermi portata “velocemente” (a 10 km all’ora, secondo quanto mi aveva detto il soldato che realmente mi ha trasportato, per spiegarmi quanto tempo occorreva per arrivare, visto che non riuscivo a respirare a causa del collasso al polmone) con il suo Humvee all’ospedale. Ignorando che quando sono stata tirata fuori dalla macchina sono rimasta per un quarto d’ora, seminuda, sul selciato, prima di essere portata all’ospedale, sull’Humvee, dal quale erano partiti i colpi, questo è vero.
Dopo quello che è successo è facilmente comprensibile che Lozano abbia gli incubi, come li ho io che ho vissuto la stessa scena dall’altra parte della barricata. Sappiamo che le regole di ingaggio sono feroci, che i soldati in Iraq sono terrorizzati, ma ci sono molti di loro che hanno avuto il coraggio di ribellarsi a quella situazione.
Quello che è inaccettabile è anche il vittimismo di Lozano. Alimentato dai giornalisti Usa che lo hanno intervistato rispondendo tutti a un ordine di scuderia, senza porsi nessun problema di fronte a una versione unilaterale dei fatti e citando a sproposito il mio libro Friendly fire.
Una vera lezione di giornalismo made in Usa.
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