Ricevo questa lettera da Andrea Chiodi, che ringrazio infinitamente. Pubblico di seguito alla sua lettera, anche la sua traduzione di un articolo della blogger iraqena Riverbend, relativo al massacro compiuto dagli americani nel rifugio di al-Amiriya, durante la prima Guerra del Golfo. Desidero solo aggiungere che anch’io sono molto affezionato a questa anonima ragazza iraqena, ora scomparsa dal web e di cui non conosciamo la sorte. La mia prima traduzione dall’inglese per questo blog (il secondo articolo in assoluto da me pubblicato, nel 2006) fu per l’appunto un brano tratto da Baghdad Burning, il sito di Riverbend. In seguito ho tradotto diversi altri suoi interventi, fino alla decisione della sua famiglia di fuggire in Siria e alla descrizione del suo viaggio verso una nuova patria. Potete trovare alcune traduzioni qui, qui, qui e qui. Dagli articoli di Riverbend e’ stato ricavato anche un libro che potete trovare su Google Books in versione elettronica.
caro Gianluca,
innanzitutto scusa il tu confidenziale, ma leggendoti regolarmente e con interesse e condividendomolto, o quasi tutto, di cio’ che scrivi, si e’ inevitabilmente portati ad adottare un tono di familiarita’ come si fa parlando con qualcuno che si conosce bene.
In questo periodo tra giorni della memoria e giorni del ricordo, indipendentemente da ogni considerazioneriguardante veridicita’e attendibilita’ di eventi presentatici come indubitabili, non posso far a meno di notare che si e’ sempre prontia celebrare le vittime (vere o supposte) quando i carnefici (siano essi i nazisti od i titini) sono stati sconfitti o comunque cancellati dal palcoscenico della storia e quando questi carnefici sono gia’ oggetto del biasimo e della condanna universali. Molto piu’ raro e timido e’ il cordoglio perle vittime delle violenze perpetrate da quelli che sono i vincitori di oggi, coloro che detengono il potere mediatico e quindi dirigono le coscienze.
Persino per l’ olocausto nucleare si e’ ancora oggi sempre pronti a trovare qualche ‘buona ragione’, ad addossare le colpe alle stesse vittime: gli irriducibili giapponesi che rifiutavano di arrendersi (mentre e’ noto che da tempo i giapponesi cercavano, tramite i sovietici, di giungere ad un armistizio). Abitudine, quella di addossare allo stesso nemico le colpe delle sofferenze che gli vengono inflitte, a cui evidentemente gli americani non si sottraggono mai come si ricordera’ a proposito delle vittime irachene delle sanzioni o degli stessi bombardamenti, la colpa del loro strazio veniva ovviamente addossata allo stesso Saddam anche lui colpevole di non arrendersi. Evidentemente agli americani (come noto sempre buoni e ben disposti verso gli altri) piangeva il cuore mentre si vedevano costretti ad affamare o bombardare il povero popolo iracheno.
Un’unica volta ho sentito un americano, responsabile di massacri, avere infine scrupoli di coscienza: quando un ormai vecchio McNamara ebbe un sussulto di sincerita’, in una sua famosa intervista, forse ispirato da quella lucidita’ ed obiettivita’ che da’ la vecchiaia, parlando a proposito dei bombardamenti che lui ed il generale LeMay avevano pianificato contro la popolazione giapponese. Racconta McNamara:
<!–[if !supportLists]–>- <!–[endif]–>LeMay said, ‘If we’d lost the war, we’d all have been prosecuted as war criminals.’ And I think he’s right. He, and I’d say I, were behaving as war criminals. LeMay recognized that what he was doing would be thought immoral if his side had lost. But what makes ita’ immoral if you lose and not immoral if you win?
[Le May disse, ‘Se avessimo perduto la guerra, saremmo stati tutti perseguiti come criminali di guerra’. E io penso che avesse ragione. Lui e io stesso, ci eravamo comportati come criminali di guerra. Le May riconobbe che quello che stava facendo sarebbe stato ritenuto immorale se la sua parte avesse perso. Ma cos’e’ che rende un’azione immorale solo quando perdi e non quando vinci?]
Ebbene dopodomani, il 13 febbraio non e’ solo la vigilia di San Valentino. E’ l’anniversario del bombardamento di Dresda ad opera di inglesi ed americani che scientemente e scientificamente pianificarono la strage di decine di migliaia di civili tedeschi e la distruzione di una citta’ carica di storia. Ma e’ anche l’anniversario del bombardamento del rifugio di Al-Amiriya a Bagdad. Su quest’ ultimoevento, che forse molti neanche ricordano, ho tradotto una commovente pagina di una blogger irachena molto nota, Riverbend che piu’ di due anni fa smise improvvisamente di scrivere il suo blog ed il cui destino ci e’ sconosciuto. La traduzione ed altre considerazioni su quella strage sono a tua disposizione, riportate nel mio articolo sul sito nonsolobush alla pagina [www.nonsolobush.it]
Cordiali saluti
Andrea Chiodi
Dedicato alla memoria di L.A.S.
dal Blog ‘Bagdad Burning’, domenica 15 febbraio 2004 – (1)
di Riverbend
Il 12 febbraio nel mondo arabo e’ la festa di fine Ramadan: l’ ‘Eid Al-Fitr’. La festasi celebra con visite a famiglie e amici, banchetti speciali e atti di carita’. In molti luoghi si organizzano pranzi e banchetti per i poveri. L’Eid al-Fitr e’ anche occasione di incontro e scambio di auguri fra cristiani e musulmani. Il Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso prepara ogni anno un messaggio ufficiale per la fine del Ramadan.
Il 12 febbraio1991 Bagdad era sotto bombardamenti continui, sopratutto notturni, da ormai quasi un mese. Naturalmente non c’era ne’ l’ atmosfera tipica delle feste ne’ lo stato d’ animo per fare festa. La maggior parte delle famiglie rimaneva in casa perche’ non c’ era nemmeno la benzina per poter muoversi da una zona all’ altra della citta’. I quartieri piu’ fortunati avevano rifugi antiaerei costruiti secondo criteri moderni e la gente dalle zone vicine si ritrovava assieme all’ interno del rifugio durante i bombardamenti notturni. Anche quell’ anno avrebbero potuto festeggiare l’ ‘Eid Al-Fitr’ all’ interno dei rifugi insieme ai vicini ed agli amici.
Gli iracheni si recavano ai rifugi piu’ per ragioni sociali che per questioni di sicurezza. Nei rifugi, costruiti secondo gli standard piu’ moderni, c’era acqua elettricita’ ed una sensazione di sicurezza e di serenita’ data tanto dalla solidita’ della struttura quanto dalla presenza di amici e famiglie sorridenti. In guerra essere in compagnia di un largo gruppo di persone aiuta a rendere le cose piu’ semplici, e’ come se il coraggio e la capacita’ di resistenza si trasferiscano da una persona all’ altra ed aumentino esponenzialmente con l’ aumentare del numero delle persone. Cosi le famiglie nel quartiere di Amiriya decisero che si sarebbero riunite all’ interno del rifugio per la cena della festivita’ di’Eid Al-Fitr’ dopo di chegli uomini ed i ragazzi al di sopra dei 15 anni sarebbero andati via per lasciare che donne e bambini potessero festeggiare tra di loro in tutta liberta’. Gli uomini non potevano immaginare, mentre andavano via che quella sarebbe stata l’ ultima volta che avrebbero visto le loro mogli, figlie, bambini, fidanzate, sorelle….
Posso immaginare la scena dopo che gli uomini, intorno la mezzanotte, ebbero lasciato il rifugio: le donne sedute intorno che versano il te’ bollente nelle tazzine di vetro, passandosi l’ un l’ altra pasticcini e cioccolata. I bambini a correre in lungo ed in largo all’ interno del vasto rifugio gridando e ridendo come fossero i padroni del vasto campo di gioco sotterraneo. Ragazze che siedono in circolo parlando di ragazzi o vestiti o musica o le ultime chiacchiere su Sara o Lina o Fatima. Gli odori che si mescolano te’, arrosto, riso. Odori confortanti che danno l’ impressione di stare realmente a casa.
Le sirene incominciano a dare l’ allarme, le donne ed i bambini interrompono gli assaggi o le sgridate, dicono una breve preghiera preoccupandosi per i loro cari che sono andati fuori dal rifugio per lasciare piu’ liberta’ a mogli e figli.
Le bombe cadono crudeli e veloci poco dopo le 4.00 della notte. La prima ‘smart bomb’ colpisce in corrispondenza del sistema di ventilazione attraversando il primo piano del rifugio dove crea una grande voragine, giungendo fino al piano inferiore del rifugio dove sono i serbatoi d’ acqua e di propano per riscaldare acqua e cibi. Il secondo missile segue immediatamente il primo e ne finisce il lavoro. Le porte del moderno rifugio si chiudono automaticamente imprigionando le oltre 400 persone che sono all’ interno.
Il rifugio si trasforma in un inferno; le esplosioni ed il fuoco salgono dal livello inferiore fino al livello dove sono le donne ed i bambini e l’ acqua raggiunge l’ ebollizione e sale anch’ essa. Quelli che non muoiono immediatamente carbonizzati dal fuoco o dilaniati dalle esplosioni muoiono a causa dell’ acqua bollente o carbonizzati dal calore che arriva fino a piu’ di500° C)
Ci svegliammo al mattino vedendo gli orrori riportati nei notiziari televisivi. Guardavamo i soccorritori iracheni entrare nel rifugio ed uscire piangendo ed urlando, trasportando all’ aperto corpi carbonizzati ad un livello tale da non sembrare nemmeno umani. Vedemmo la gente che abitava nella zona, uomini, donne e bambini aggrappati al recinto che circonda il rifugio, urlanti con terrore in preda al panico, chiamare nome dopo nome, cercando un viso familiare nel mezzo dell’ orrore.
I corpi vennero allineati uno accanto all’ altro, tutti delle stesse dimensioni, rimpiccioliti a causa del calore e carbonizzati tanto da non poter essere riconosciuti. Alcuni erano in posizione fetale, curvi come se cercassero di scappare richiudendosi in se stessi. Altri erano allungati e rigidi come se stessero cercando di stendere una mano per salvare una persona amata o a raggiungere un riparo. La maggior parte rimase irriconoscibile per i familiari, solo la taglia ed i frammenti di abiti o di gioielliindicano il sesso e l’ eta’ approssimativa.
Amiriya e’ un quartiere abitato da insegnanti di scuola, professori di college, dottori e comuni impiegati, un quartiere della classe media con case basse, gente amichevole ed una crescente popolazione mercantile. Era un miscuglio di sunniti e sciiti e cristiani, tutti conviventi pacificamente e felicemente. Dopo il 13 febbraio divento’ un’ area da tuttievitata. Per settimane e settimane sull’ intera zona aleggio’ un lezzo di carne bruciata e l’ aria era pesante e grigia di cenere. Le case stuccatebeige furono improvvisamente ricoperte con neri pezzi di stoffa decorati dei nomi dei cari perduti: ‘Ali Jabbar piange la perdita di sua moglie, della figlia e di due figli…‘; ‘Muna Rahim piange la perdita di sua madre, delle sorelle dei fratelli e del figlio…‘
(…….) La mia prima visita al rifugio risale a diversi anni dopo il bombardamento. Eravamo nel quartiere in visita ad un amica di mia madre, un’ insegnante che si era ritirata in pensione dopo il bombardamento di Amiriyah. Non aveva intenzione di andare in pensione, ma quando le scuole si riaprirono nell’ aprile del 1991, e si reco’ il primo giorno di scuola a dare il benvenuto ai suoi alunni, entro’ in classe e trovo’ solo 11 dei 23 studenti. ‘Pensavo che avessero deciso di non venire…’, ricordo che raccontava a mia madre con voce sommessa, ‘…ma quando cominciai a prenderele presenze, i ragazzi mi dissero che gli altri erano morti nel rifugio…‘.
Subito dopo l’ amica di mia madre lascio’ il lavoro perche’, disse, quel giorno il cuore le si era spezzato e non poteva piu’ guardare i bambini senza ricordare la tragedia.
Decisi cosi di rendere omaggio al rifugio ed alle vittime. Era ottobre e chiesi alla professoressa in pensione se il rifugio fosse aperto (sperando nel profondo del mio cuore che mi rispondesse negativamente). Ella fece segno di si con la testa e disse che era aperto, che invero era sempre aperto….
Camminammo brevemente fino al rifugio che era nel mezzo delle case, separato solo da un’ ampia strada. C’ erano bambini che giocavano per la via, ne fermammo uno che giocava a pallone. ‘C’e’ qualcuno nel rifugio?’ chiedemmo. Il piccolo fece un cenno affermativo con la testa e rispose che si, il ri fugioera ‘maskoon’ (‘abitato’). Ora la parola ‘maskoon’ puo’ significare due differenti cose in arabo, puo’ voler dire ‘presenziato’, ma anche ‘infestato, abitato da fantasmi’. La mia immaginazione mi porto’ a pensare che il bambino alludesse al secondo significato. Non sono certo una persona che crede nei fantasmi o nei mostri. Il mostro peggiore e’ l’ uomo e se tu sei sopravvissuto alla guerra e alle bombe, i fantasmi sono nulla al confronto… nonostante cio’ qualcosa dentro di me sapeva che un posto dove piu’ di 400 persone avevano perso la vita (ed im maniera cosi orribile ed improvvisa!) dovesse in qualche manieraconservare ancora una qualche presenza delle loro anime…
Entrammo. Il posto era oscuro e freddo nonostante il tiepido tempo di ottobre. L’ unica luce proveniva dallo squarcio aperto nel tetto del rifugio, laddove i missili americani avevano colpito. Desiderai trattenere il respiro timorosa di sentire qualche odore che non volevo assolutamente percepire… ma non puoi trattenere il respiro cosi a lungo: l’ aria non era affatto viziata, aveva un sentore di tristezza, cosi come il vento che attraversava il rifugio aveva un qualche cosa di doloroso. Gli angoli lontani del rifugio erano immersi nell’ oscurita’, era facile immaginare che ci fossero persone rannicchiate nel buio.
Le pareti erano coperte di fotografie. Centinaia di foto di donne e bimbi dai larghi sorrisi e con gli occhi di gazella ed i morbidi sorrisi dei piu’ piccoli. Un viso dopo l’ altro ci fissavano dal cupo grigiore delle pareti in un’ atmosfera immobile e senza speranza. Mi chiedevo cosa fosse accaduto alle loro famiglie o piuttosto a cio’ che era rimasto delle loro famiglie all’ indomani della catastrofe. Conoscevamo un uomo che era impazzito dopo aver perso sua moglie e i suoi figli all’ interno del rifugio. Mi chedevo quanti altri avevano incontrato lo stesso fato… e mi chiedevo quanto valga la vita una volta che hai perduto le persone a te piu’ care.

In fondo al rifugio sentimmo delle voci. Tesi le orecchie per ascoltare e scoprimmo 4 o 5 turisti giapponesi ed una donna piccola e minuta che si rivolgeva loro in uno stentato inglese. Stava cercando di spiegare come le bombe avevano colpito il rifugio e come la gente era morta. Per aiutarsi nella spiegazione faceva ampi gesti con le mani ed i turisti giapponesi annuivano con la testa, scattavano fotografie e mormoravano in cenno di assenso.
‘Chi e’ quella donna?‘ Chiesi all’ amica di mia madre.
‘Si prende cura del posto…‘, mi rispose a bassa voce.
‘Perche’ non mettono qualcuno che parli meglio l’ inglese: e’ frustrante da vedere…‘ le sussurai di rimando guardando i giapponesi che sitringevano la mano alla donna prima di andarsene.
La professoressa scosse la testa tristemente, ‘Hanno provato, ma lei rifiuta di andarsene. E’ rimasta qui a prendersi cura del rifugio fin dal momento in cui le squadre di soccorso ebbero finito il loro lavoro …. ha perso 8 figli qui…‘. Rimasi scioccata da quelle parole, mentre la donna si avvicinava a noi. Il suo viso era severo benche’ gentile, come quello del preside di una scuola o… come quello di una madre di 8 figli. Ci strinse la mano e ci porto’ in giro per il bunker: ‘Qui e’ dove stavamo… Qui a’ dove il missile e’ penetrato… Qui e’ da dovel’ acqua bollente e’ risalita… Qui e’ dove la gente e’ rimasta attaccata al muro.
Nel parlare in arabo la sua voce era forte e ferma. Non sapevamo cosa dirle. Ella continuava a raccontarci di come fosse andata nel rifugio con 8 dei suoi nove figli e come l’ avesse momentaneamente lasciato, pochi minuti prima dell’ arrivo dei missili, per andare a prendere del cibo ed un ricambio di abiti per uno dei bimbi piu’ piccoli. Stava a casa quando le smart bombs esplosero e il suo primo pensiero fu ‘Grazie a Dio i bambini sono nel rifugio…’ Quando ritorno’ correndo verso il rifugio si accorse che era stato colpito e l’ orrore comincio’… Rimase a guardare i corpi che venivano portati via per giorni e giorni e per mesi rifiuto’ di credere di averli persi. Da allora non ha lasciato il rifugio: e’ diventato la sua casa.
Indico’ le vaghe orme dei corpi impresse dal calore sulle pareti di cemento e sul pavimento e la piu’ impressionante era quella di una madre che stringeva un bimbo al suo seno come se tentasse di proteggerlo o di salvarlo. ‘Quella avrei dovuto essere io …’ disse la madre che aveva perduto i suoi figli e noi non sapemmo cosa dirle.
Fu allora che mi resi conto che il posto era effettivamente ‘maskoon’ o infestato… a partire da quel 13 febbraio 1991 era stato infestato da fantasmi: i fantasmi erano coloro che avevano avuto la maledizione di sopravvivere.
Riverbend – dal blog ‘Bagdad Burning’ – domenica 15 febbraio 2004
traduzione Andrea Chiodi, Giuseppe Chiodi
post originale in inglese
(Tratto da: http://www.ariannaeditrice.it)
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