
La Palestina, dalla vittoria con larga maggioranza alle elezioni democratiche del 25 gennaio 2006, ha dovuto fare i conti con le scelte della Comunità Internazionale (spinta soprattutto da Usa e Israele) che ha decretato l’embargo. Questo significa frontiere chiuse, l’impossibilità per i lavoratori di commerciare ma soprattutto blocco totale degli aiuti umanitari. In un paese dove la popolazione povera arriva all’80% e la disoccupazione è al 40%, la mancanza di generi di prima necessità e medicinali rischia di aggravare la situazione interna, provocando un’escalation di violenza.
Il 15 maggio scorso gli israeliani hanno festeggiato la fine del colonialismo britannico e la nascita dello stato di Israele, che è avvenuta nel 1948. Per i palestinesi invece è stato il giorno della memoria per la “naqba”, cioè la “catastrofe” che ha costretto migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, le proprie terre e scappare altrove portando via con se qualche straccio, un pezzo di pane e tanta rabbia nel cuore.
“Oggi il popolo palestinese è minacciato da una diversa naqba” afferma un portavoce di Abu Mazen, riferendosi alla preoccupante situazione interna, ed è tornato a chiedere la rimozione dell’embargo per non alimentare le violenze e sperare in una pace sempre più improbabile.
Fabio Canova
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