La crisi finanziaria globale e le stesse proteste di massa degli ultimi tempi sembrerebbero richiedere un’analisi di cio’ che accade all’altezza della sitazione. Ovvero, per dirla tutta, un nuovo approccio alla questione capitalismo/anticapitalismo che fuoriesca dalle categorie sinora utilizzate. A tentare l’impresa e’ intanto Geminello Alvi, economista-scrittore che con il suo ultimo libro – Il capitalismo. Verso l’ideale cinese (Marsilio, pp. 335, euro 21,00) – conclude la sua trilogia sull’economia nella modernita’ avviata con Le seduzioni economiche di Faust (Adelphi, 1989) e Il Secolo Americano (Adelphi, 1993). Quest’ultimo saggio, in particolare, prende le mosse dalla crisi del 2008 e dal ruolo crescente dell’economia cinese per tracciare le vicende delle varie spiegazioni e restituzioni del capitalismo, gli errori e gli abbagli, e giungere a una descrizione opposto a quella detta tradizione anticapitalista classica. Al centro di tutto la distorsione epistemologica e antropologica della ‘percezione del mondo in forma di Pil’. Alvi ricostruisce filologicamente l’origine e il primo manifestarsi di due parole, capitale e capitalismo, per individuare la matrice spirituale prima ancora che strutturale dell’economia contemporanea. E quindi piu’ che Marx torna utile la lettura di Stevenson e di Dickens, di Thackeray e di Tocqueville: ‘La letteratura inglese e’ da preferirsi agli economisti per capire il pervertimento del capitale’. E l’acquisizione piu’ innovativa di Alvi e’ che il capitalismo e l’anticapitalismo si muovono nello stesso orizzonte mentale. Ragion per cui il processo anticapitalista classico, che di per se’ chiede piu’ statalismo, conduce inevitabilmente a quello che Alvi definisce ‘l’ideale cinese’, in altre parole la forma compiuta e maggiormente dispotica di capitalismo. Leggiamo esplicitamente: “Il capitalismo non e’ riducibile, come mostrano i paradossi cinesi, alla venalita’ individuale, ma richiede, in dosi crescenti, complicita’ statali. Consiste d’individualissima invidia, persegue il lusso del superfluo, ma richiede lo stato in guerra o in stampa di banconote”.
La spiegazione sulla genesi del fenomeno che piu’ convince Alvi e’ quella di Werner Sombart, il quale vedeva nel capitalismo un mutarsi della ragione e un cerebralizzarsi dei processi economici prima impensabile. Un mutamento percettivo, insomma, che avrebbe trasformato l’economia sostanziale in un processo sempre piu’ astratto e spersonalizzante che si determina tra l’invidia e la paura: il capitale prima viene invidiato e poi si accumula per paura di perderlo. Quindi tutta una concatenazioni di fenomeni che avrebbe caratterizzato gli ultimi due secoli: “Il capitalismo fa risultare ovvio l’assurdo, ovvero che lo stato possa stampare le sue cambiali, chiamarle denaro, quindi farle circolare senza bisogno che alcun banchiere le sconti. E per di piu’ dagli anni Settanta del Novecento, senza alcuna copertura aurea. E’ l’assurdo di ritrovarsi a rigirare per le mani filigrane a saldo delle quali sta solo il debito statale. Con questo non senso si e’ pervertito il capitale, falsata l’occupazione e l’intera struttura dei tassi d’interesse”.
La crisi finanziaria in corso, suggerisce Alvi, e’ solo l’esito di una concatenazione di cause che collega l’egemonia americana del secolo scorso, l’avanzata cinese, l’euro, le scelte di Greenspan, l’omologazione della new economy, la globalizzazione. Un percorso coerente e nel quale l’anticapitalismo classico si muove in funzione complementare. Per quanto riguarda l’Italia, leggiamo che “negli anni Novanta si compie una mutazione conclusiva della classe operaia: essa cede al tasso di profitto quanto gli aveva ripreso negli anni Settanta”. E a questo proposito, il riagganciarsi di Alvi come ‘pars costruens’ alla prospettiva di Adriano Olivetti, conferma una via terza tra il capitalismo e l’anticapitalismo. Recuperando infatti quanto avevano intuito i filantropi e i socialisti pre-marxiani o libertari come Kropotkin e Stirner, i fondamenti di un’economia diversa dal capitalismo vengono individuati nella minore crescita e nel dono.
Superare l’egemonia mentale del tornaconto, prospettare una solidarieta’ fraterna concreta: “L’impresa dovrebbe evolvere, esauritasi, pertanto a fondazione, decumulo”. Non a caso, spiega Alvi, un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti venne avversato sia dalla Fiat che dai comunisti, dal capitalismo e dall’anticapitalismo statalista. “Purtroppo – ha scritto anche Goffredo Fofi – in Italia invece del modello Olivetti vinse in economia e in politica il modello Agnelli, un modello di sviluppo amato anche dalla sinistra e che ha piegato la politica alle sue istanze e ai suoi interessi. L’idolo dello sviluppo appartenne, come e’ noto, anche ai comunisti. Se invece avesse vinto Olivetti, invece di Agnelli, sicuramente ci saremmo ritrovati a vivere in un paese diverso'”. C’e’ spazio, adesso, di fronte all’implosione della coppia capitalismo/anticapitalismo, per una prospettiva d’economia sostanziale e libertaria come propone Alvi alla fine del suo saggio?
(Tratto da: http://www.ariannaeditrice.it)
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