Il rapporto esistente fra attività agricole e ambiente è già da tempo oggetto di grande attenzione da parte del mondo della ricerca e della politica. Se, da un lato, gli studiosi, e fra questi gli economisti, hanno contribuito in maniera decisiva ad approfondire le questioni di carattere teorico ed empirico di tale connessione, dall’altro i decision makers hanno inserito questo tema nella loro agenda attribuendogli un’importanza sempre maggiore. Un esempio, a questo riguardo, è costituito dalle politiche agricole comunitarie che, a partire dalle misure di accompagnamento del 1992, hanno costantemente ampliato lo spettro degli interventi agroambientali e l’ammontare delle relative risorse finanziarie. La parte largamente preponderante di tali risorse è stata destinata alla riduzione delle esternalità negative attraverso il sostegno agli agricoltori che hanno adottato tecniche di coltivazione e allevamento a basso impatto ambientale.
Fra queste un ruolo fondamentale hanno svolto sia l’agricoltura integrata che l’agricoltura biologica.
Ma, mentre la prima non dà origine a produzioni cui viene riconosciuta una specifica caratterizzazione, i prodotti da agricoltura biologica possono fregiarsi del relativo marchio che li qualifica all’interno del mercato, trasmettendo al consumatore un chiaro segnale di maggiore attenzione verso la salvaguardia dell’ambiente.
È possibile nello stesso tempo indicare un consumo di energia da parte dell’agricoltura intensiva che è mediamente di cinquanta volte superiore rispetto all’energia consumata nell’agricoltura convenzionale.
Esempi più specifici arrivano dagli Stati Uniti, dove l’agricoltura intensiva si è sviluppata molto più che in Europa, almeno tra il 1950 e il decennio successivo.
Si stima che alla metà degli anni Novanta servissero circa 1.500 litri di petrolio all’anno per produrre il cibo in grado di sfamare una persona, escluso confezionamento, refrigerazione e trasporto nei punti vendita e tralasciando i consumi per la cottura.
Cifre da capogiro che diventano ancora più preoccupanti se a esse si applica un prezzo medio del greggio via via crescente.
La pressione dell’agricoltura intensiva sulla produzione alimentare e sull’ambiente è ormai arrivata, secondo Kensan e Pfeiffer, a livelli tali da far temere un disastroso scenario (diminuzione al 5-20% della produzione odierna) se i prodotti chimici usati in agricoltura improvvisamente scomparissero.
Un vero e proprio crollo alimentare che metterebbe in crisi l’intero Pianeta.
Questa evidenza, a parere di chi scrive, mette in crisi una delle principali motivazioni di acquisto dei prodotti biologici.
Con l’espressione “food miles”, pur intendendo letteralmente i chilometri percorsi da un alimento dal luogo nel quale avviene la sua fase produttiva a quello in cui è consumato, si mira ad esprimere l’entità dell’impatto ambientale del trasporto del cibo che arriva sulla nostra tavola.
L’attenzione nei confronti di questo aspetto, ancora molto circoscritta in Italia, è assai rilevante nei Paesi anglosassoni e in particolare in Inghilterra.
Questo include le emissioni di biossido di carbonio, l’inquinamento dell’aria, il traffico, gli incidenti e il rumore.
Esiste un chiaro rapporto di causa-effetto fra i food miles e questo carico…
La crescente preoccupazione di tale impatto ha avviato un dibattito su come misurare e ridurre i food miles”.
Da considerare, riguardo al presunto risparmio energetico legato alla conduzione in regime biologico, come le opinioni risultino estremamente contrastanti.
Se c’è chi sostiene che i consumi si riducono in maniera drastica, da altre parti si arriva ad affermare che l’agricoltura biologica attualmente richiede più energia per tonnellata di prodotto, perché le rese sono più basse e le erbe infestanti sono combattute attraverso interventi meccanici.
La verità probabilmente si trova nel mezzo con un risparmio che si aggira fra il 15 e il 30% (Cormack, 2000).
Nell’articolo si afferma come “il locale è il nuovo biologico” in quanto “la crescita del Big organic, la produzione su larga scala di prodotti biologici per andare incontro ad una domanda crescente, ha prodotto una forte reazione negativa sulla spinta che il movimento bio ha venduto la sua anima”.
In alternativa, il cibo locale, non necessariamente biologico, può essere comprato direttamente da piccoli produttori, tagliando drasticamente la catena distributiva in modo tale che “la minor quantità di food miles rende il cibo locale più verde”.
Nello stesso tempo si osserva un sensibile incremento della vendita diretta in azienda che può essere stimato attorno al 25% nel periodo compreso tra il 2001 e il 2005, con un incremento maggiore negli ultimi due anni (Gardini e Lazzarin, 2007).
E’ questo il primo atto ufficiale nel quale viene riconosciuto un legame diretto fra la “biologicità” di un prodotto e la sua modalità di distribuzione.
Questa modifica alle norme di certificazione stabilite da parte di un organismo di enorme prestigio si concentra, in particolare, sull’impatto ambientale del trasporto aereo dei prodotti agricoli.
La decisione della Soil Association si inserisce con forza nel vuoto lasciato dagli interventi comunitari di regolamentazione del biologico nei quali è assente qualunque riferimento, anche semplicemente di indirizzo, rispetto alle modalità di distribuzione e di vendita dei prodotti dell’agricoltura biologica.
Infatti, se è vero che il disciplinare europeo ha preso spunto in larga misura dai principi dei movimenti biologici, ciò è accaduto esclusivamente per quanto riguarda le modalità di conduzione dei processi produttivi.
Nella normativa sul biologico non si trovano tracce di principi quali “usare risorse rinnovabili all’interno di sistemi di produzione organizzati su base locale”, e “progredire verso una catena di produzione completamente biologica che sia socialmente giusta e ecologicamente responsabile” (IFOAM, 1996). Questa carenza appare particolarmente grave nella misura in cui il concetto di agricoltura biologica assume un significato che oltrepassa i cancelli dell’azienda e va applicato a tutti i passaggi della filiera, dall’avvio del processo di produzione alla tavola del consumatore (Woodward, Fleming e Vogtmann, 1997).
Conclusioni
Il consumatore di prodotti biologici, con il crescere della consapevolezza delle sue scelte d’acquisto, pone sempre più attenzione non soltanto agli aspetti tecnici ed alle implicazioni sociali dei processi con cui gli alimenti che acquista vengono prodotti, ma anche alle modalità con cui vengono distribuiti e commercializzati.
All’interno di queste fasi, il trasporto, con tutte le implicazioni di carattere ambientale e sociale, assume un’importanza decisiva incidendo in maniera tanto più consistente quanto maggiore risulta l’entità dei food miles.
Che un prodotto agricolo perda la propria caratterizzazione biologica all’aumentare delle distanza che percorre dalla località di produzione fino al luogo del consumo rappresenta un dato di fatto che, al di là della percezione etica individuale, può essere quantificato in termini di emissioni di anidride carbonica, consumo di combustibili fossili, inquinamento dell’aria, incremento del traffico, degli incidenti, del rumore.
Ovviamente, oltre alla distanza, altri elementi contribuiscono a determinare l’entità di tale impatto, primi fra tutti la via seguita per il trasporto (mare, terra, aria) e le caratteristiche del mezzo di trasporto, in relazione ai suoi consumi energetici e alle capacità di carico.
Di conseguenza, la scarsa compatibilità fra l’effettiva “biologicità” di un prodotto e i suoi food miles, temporaneamente eclissata dalle favorevoli condizioni del mercato, comincia ad essere percepita da un crescente numero di consumatori.
In queste condizioni, a parere di chi scrive, l’unica via perseguibile per preservare la “biologicità” degli alimenti e, allo stesso tempo, rispondere alle istanze dei consumatori più attenti è da ricercare nell’adozione di strumenti normativi simili a quelli proposti dalla Soil Association, attraverso i quali garantire che i prodotti biologici posseggano effettivamente quel valore immateriale di carattere ambientale e sociale che viene loro attribuito.
Silvio Franco
Note
(1) Per una rassegna su questi aspetti si rimanda a Zanoli (2000) e Caporali (2003).
(2) A questo riguardo si potrebbe sostenere che il premium price continua a trovare una sua ragion d’essere nelle caratteristiche materiali dei prodotti da agricoltura biologica, la cui maggiore salubrità e le cui superiori proprietà nutrizionali rappresentano la principale motivazione di acquisto per molti consumatori. Anche questo argomento, però, è facilmente contestabile in quanto al momento non esiste alcuna incontrovertibile evidenza scientifica né alcun riferimento normativo che sancisca una qualsiasi forma di superiorità qualitativa del cibo biologico rispetto al convenzionale (Franco, 2004).
(3) In tale documento la definizione di food miles che viene data è la seguente “distance food travels from the farm to consumer”.
(4) A questo proposito non è irrilevante notare come i prodotti petroliferi rappresentino la parte preponderante dei consumi energetici dell’agricoltura, con una quota prossima all’ 80%. (ENEA, 2006).
Riferimenti bibliografici
- AA.VV. (2005), The Validity of Food Miles as an Indicator of Sustainable Development, Final Report produced for DEFRA, AEA Technology.
- Angelelli E. (2007), Niente marchio bio con il trasporto aereo, [link]
- Caporali F. (2003), Agricoltura e Salute: la sfida dell’agricoltura biologica, Editeam, Cento (FE).
- Cormack, W.F. (2000), Energy Use in Organic Farming Systems, MAFF/Defra report OF0182.
- Economist (2006), Vote with your trolley, print edition, December 9th 2006.
- ENEA (2006), Rapporto Energia e Ambiente 2005, ENEA.
- Franco S. (2004), “Etica ambientale e mercato dei prodotti biologici”, La Questione Agraria, n.3.
- Gardini C., Lazzarin C. (2007), “La vendita diretta in Italia”, Agriregionieuropa, anno 3, numero 8, [link]
- IFOAM (1996), Basic standards for organic agriculture and processing, IFOAM Head office, Tholey-Theley.
- ISMEA (2006), La logistica come leva competitiva per l’agroalimentare italiano, ISMEA, Roma.
- ISMEA (2007). Bio, consumi frenati nel 2006, ISMEA – Ultime notizie, Roma, 27 febbraio 2007, [link]
- Pollan M. (2006), The omnivore’s dilemma A natural history of four meals, The Penguin Press.
- Woodward L., Fleming D., Vogtmann H. (1997), “Health, sustainability, the global economy – the organic dilemma: reflection on the past, outlook for the future”, in Ostengaard, T.V. (ed.) Fundamentals of organic agriculture, Proceedings of the 11th IFOAM International Scientific Conference, Copenaghen, August 1996. IFOAM, Tholey-Theley.
- Zanoli R. (2000), “Impatto economico, ambientale e sociale dell’agricoltura biologica: problemi teorici e metodologici”, Rivista di Politica Agraria, n.6.
Fonte: http://agriregionieuropa.univpm.it/ via Sargo.it
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