Il Manifesto che segue e’ la sintesi di un saggio piu’ lungo che pubblicheremo sul prossimo numero del Mensile. Il principale esponente del Movimento per la Decrescita Felicein Italia, Maurizio Pallante (che e’ peraltro uno nostro collaboratore) si propone di farlo firmare a quante piu’ persone possibile. Massimo Fini e’ uno dei primi firmatari.
Pur coscienti che i punti in esso contenuti non esauriscono il ‘discorso’ e la narrazione delle problematiche della modernita’ alle quali ci dedichiamo da sempre, si tratta in ogni caso di una tra le elaborazioni piu’ puntuali ed efficaci, peraltro fortemente ancorata alla realta’, che la maggior parte deglipseudo intellettualidel nostro Paese, e del mondo, neache si sogna di provare a riuscire a elaborare.
Eccolo. I lettori che lo condividono sono invitati a diffonderlo il piu’ possibile, magari citando ancheLa Voce del Ribelleche sta contribuendo alla sua diffusione.
Fermare la crescita che produce il debito
Il debito pubblico non e’ un problema di cui sia stata sottovalutata la gravita’; al contrario, e’ il pilastro su cui si fonda la crescita nell’attuale fase storica. Il debito e’ indispensabile per continuare a far crescere la produzione di merci. E’ una scelta consapevolmente perseguita con una totale unita’ d’intenti dai governi di destra e di sinistra in tutti i paesi industrializzati. La crescita drogata dal debito va fermata perche’ non e’ la soluzione della crisi, ma la sua causa.
Clima, energia, economia: tre crisi ci minacciano
Senza una nuova politica, la crisi del debito creato per drogare la crescita potra’ solo aggravarsi. Tutto lascia credere che ormai sia solo questione di tempo. Se la prima a precipitare sara’ la crisi climatica, sara’ difficile trovare una via di scampo. Se invece la crisi climatica verra’ ritardata dalla crisi economica o da quella energetica, coloro che non si sono lasciati ipnotizzare dalla colossale disinformazione planetaria dei mass media – e sono piu’ di quanti si creda – possono evitare di rimanere sepolti dalle macerie.
Grandi Opere, spesa militare, costi della politica
Per uscire dalla crisi e bloccare la spirale del debito bisogna prendere immediatamente tre decisioni: sospendere tutte le grandi opere pubbliche deliberate in deficit, ridurre drasticamente le spese militari, ridurre drasticamente i costi della politica. Il sistema di potere fondato sull’alleanza strategica tra grandi imprese e partiti politici del secolo scorso non prendera’ mai queste decisioni, perche’ ne verrebbe travolto.
Una nuova politica per il bene comune
Occorre una nuova leva di politici,antropologicamente diversida quelli che si sono formati nei partiti di destra e di sinistra; non omologati sul dogma della crescita, guidati nelle loro scelte dall’analisi e dalla risoluzione dei problemi. Gia’ se ne stanno formando: i loro incubatori sono i movimenti di resistenza contro le grandi opere e contro la privatizzazione dei servizi sociali.
Il debito italiano: rischio bancarotta
In Italia il debito pubblico rappresenta il 119% del Pil e alla fine del 2011 raggiungera’ i 2.000 miliardi di euro. Il Giappone sta peggio di noi, con un debito oltre il 200% del Pil, e la stessa Gran Bretagna – sommando il debito pubblico a quello di aziende e famiglie – arriva al 245% del Pil, mentre il debito complessivo italiano raggiunge il 225,8% del prodotto interno lordo. Di fronte a queste cifre, non e’ escluso che i paesi piu’ indebitati decidano di uscire dalla spirale del debito, trascinando al fallimento le banche che hanno sottoscritto i loro titoli di Stato e quindi rovinando i risparmiatori.
Questa crescita, drogata dal debito
Debito pubblico sempre piu’ vasto e credito al consumo per le famiglie: solo il ‘doping’ del debito ha consentito, finora, di tenere in vita un’economia fondata sulla crescita dei consumi. Perche’ la crescita della produzione di merci ha raggiunto un livello tale che, se non si spendesse piu’ di quello che sarebbe consentito dai redditi effettivi, crescerebbero le quantita’ di merci invendute fino alla crisi di sovrapproduzione che distruggerebbe il sistema fondato sulla crescita.
La politica economica in un vicolo cieco
Ridurre le tasse e/o aumentare la spesa pubblica: e’ cio’ che destra e sinistra hanno proposto, per stimolare la crescita del Pil, perche’ se cresce la produzione di merci aumenta il gettito fiscale e si riduce il debito pubblico. Ma tagliando le tasse e aumentando la spesa pubblica, il debito aumenta. Inserendo il pareggio di bilancio nelle Costituzioni si comprometteranno le possibilita’ di crescere.
Globalizzazione, merci invendute ed ex consumatori disoccupati
Perche’ gli stimoli forniti alla ripresa economica attraverso la spesa pubblica non hanno funzionato? Perche’ nei paesi industrializzati lo sviluppo tecnologico e la globalizzazione dei mercati hanno determinato un eccesso di capacita’ produttiva che cresce di anno in anno: macchinari sempre piu’ potenti producono quantita’ sempre maggiori di merci riducendo progressivamente l’incidenza di lavoro umano per unita’ di prodotto. Ne deriva un aumento dell’offerta e una contestuale diminuzione della domanda mediante la diminuzione delle retribuzioni e la riduzione dell’occupazione.
Spesa militare: faremo la fine dell’Impero Romano?
Una voce disastrosa nel debito pubblico e’ costituita dalla crescita delle spese militari. Dopo il tracollo dell’Urss, la dimensione egemonica imperiale degli Usa ha spinto gli alleati verso un impegno crescente in molti teatri di guerra, in regioni strategiche come quelle petrolifere, fino a determinare una situazione che presenta inquietanti analogie con quella che porto’ alla caduta dell’Impero Romano quando le spese militari per tenere sotto controllo le province cominciarono a superare il valore delle risorse che se ne ricavavano.
Grandi Opere: fallimenti in tutto il mondo
Altrettanto rilevanti, nel bilancio del debito, le grandi opere spesso faraoniche e inutili: la crisi della Grecia e’ scaturita dalle spese per le Olimpiadi di Atene del 2004, se Torino e’ la citta’ piu’ indebitata d’Italia lo deve alle spese in deficita’ sostenute per le Olimpiadi invernali del 2006. Opere che non ripagano i loro costi perche’ sovradimensionate rispetto alle reali esigenze: e’ successo con l’aereo supersonico Concorde e il tunnel sotto la Manica gia’ fallito due volte; e’ successo con molti costosissimi edifici costruiti per le Olimpiadi di Atene e di Torino, gia’ in pieno degrado. Sovradimensionata rispetto alle esigenze e’ la linea ferroviaria ad alta velocita’ tra Torino-Lione.
La menzogna della ‘crescita sostenibile’ e la rivoluzione della qualita’.
Destra e sinistra sono consapevoli dell’inutilita’ di molte grandi opere, devastanti per i territori, e tuttavia rivendicano il merito di averle deliberate in deficita’ allo scopo di rilanciare la crescita economica e l’occupazione. In realta’ faranno crescere soltanto il debito pubblico. Un’opera e’ davvero sostenibile solo se assolve la funzione per cui viene costruita riducendo a parita’ di servizi il consumo di risorse, il consumo di energia e l’impronta ecologica, in modo da ripagare i costi d’investimento con la riduzione dei costi di gestione, contribuendo in questo modo a ridurre il debito pubblico. In altre parole la politica economica non puo’ piu’ basarsi soltanto su criteri di tipo quantitativo, ma deve adottarecriteri di valutazione qualitativi:
L’equivoco della green economy
Nell’ottica dellagreen economyla politica energetica non si fonda sulla riduzione della domanda mediante la riduzione di sprechi e inefficienze, ma sulla sostituzione dell’offerta: fonti rinnovabili anziche’ fossili, con incentivi statali che aggravano il debito pubblico. Anziche’ i piccoli impianti per l’autoconsumo, lagreen economyprivilegia i grandi impianti, che possono essere appannaggio solo di grandi aziende interessate a incentivare la crescita dei consumi e degli sprechi. E’ un modo di riproporre ancora una volta l’alleanza strategica tra industria e partiti: l’alleanza fondata sulla crescita, responsabile dell’attuale fallimento storico.
Riconvertire l’economia, per il bene comune
Anziche’ nelle grandi opere e nellagreen economyfaraonica, occorre investire nella ristrutturazione energetica degli edifici esistenti, nelle reti idriche, nella manutenzione degli edifici pubblici, nel ripristino della bellezza dei paesaggi (con benefici effetti anche sul turismo), nel potenziamento dei trasporti pubblici locali, nella rinaturalizzazione dei quartieri post-industriali (come a Detroit), nello sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo, nel recupero e riciclaggio di materiali dismessi, nell’agricoltura di prossimita’, nel commercio locale, nell’accorciamento delle filiere tra produttori e acquirenti.
Filiera corta: l’economia locale puo’ sopravvivere alla globalizzazione
E’ auspicabile una saldatura tra l’economia reale dei territori (contadini, commercianti, piccole e medie aziende, artigiani e professionisti) con i movimenti che si oppongono alla realizzazione delle grandi opere e alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali. Una vera democrazia partecipata puo’ realizzarsi solo ripudiando la globalizzazione e rivalutando le economie locali, con l’obbiettivo diridurre al minimo la dipendenza dalle fonti fossili e realizzare la maggiore autosufficienza produttivain base al principio di sussidiarieta’ delle filiere corte.
Territorio: la chiave per una nuova occupazione
Oltre a creare piu’ occupazione delle grandi opere, le attivita’ economiche locali sono utili, ripagano i costi d’investimento riducendo sprechi e consumi di materie prime, per cui non fanno crescere i debiti pubblici e non richiedono tecnologie potenti, bensi evolute; non possono essere svolte da aziende multinazionali che operano sui mercati mondiali, ma solo da piccoli operatori locali (agricoltori, artigiani, commercianti, tecnici) radicati sul territorio, in grado di alimentare un’economia di prossimita’, sostenibile dal credito locale, come dimostra il recente successo di alcune piccole e medie imprese italiane, che caratterizzano la nostra struttura produttiva (il 99,92 % ha meno di 250 addetti).
Meno e meglio: decrescita selettiva del Pil
Ridurre gli sprechi comporta necessariamente una decrescita: la coibentazione degli edifici per ridurne le dispersioni termiche e l’installazione di impianti energetici a fonti rinnovabili fanno crescere il Pil inizialmente, ma in seguito i risparmi lo fanno decrescere. La decrescita selettiva del Pil, riduce gli sprechi e l’impronta ecologica, migliora il benessere e la qualita’ della vita, crea occupazione utile. Solo la decrescita selettiva del Pil puo’ risolvere sia la crisi economica che quella ambientale, senza far crescere il debito pubblico ne’ deprimere le attivita’ produttive.
Agricoltura biologica: una scelta strategica
L’aumento dei prezzi delle fonti fossili e la riduzione progressiva della loro disponibilita’ rendera’ sempre piu’ conveniente l’agricoltura biologica: stagionalita’ dei prodotti, riunificazione di agricoltura e allevamento, accorciamento delle filiere, riduzione delle intermediazioni commerciali tra produttori e acquirenti, diffusione delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo collegati in rete. L’abbandono della chimica in agricoltura richiedera’ un aumento del numero di occupati nelle attivita’ agricole e un controesodo di quote non marginali di popolazione dalle citta’ alle campagne.
Ristrutturazione edilizia: fronte strategico di occupazione utile
Se si ragionasse in termini qualitativi anziche’ quantitativi si capirebbe che il bisogno insoddisfatto nel settore dell’edilizia e’ la riduzione delle dispersioni energetiche degli edifici esistenti: mediamente in Italia per il riscaldamento si consuma il triplo delle peggiori case tedesche. Di quanto lavoro ci sarebbe bisogno per ristrutturare energeticamente il nostro patrimonio edilizio e soddisfare con fonti rinnovabili il fabbisogno residuo? La riduzione del pil che ne deriverebbe offrirebbe i vantaggi economici, occupazionali e ambientali non altrimenti ottenibili.
Il modello della crescita e’ finito: non ha futuro, va sostituito
Per potersi salvare occorre sganciarsi dal sistema economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci, organizzando reti di economia, di produzione e di socialita’ alternative, in grado di funzionare autonomamente e di rispondere ai bisogni fondamentali della vita con le risorse dei territori. Si annuncia un periodo di transizione inevitabilmente drammatico. Sui patrimoni dei saperi e del saper fare accumulati e implementati nel corso delle generazioni, sulla capacita’ di trasformare con rispetto, efficienza e intelligenza le risorse della natura, sulla capacita’ di costruire rapporti improntati al rispetto reciproco, e’ possibile riavviare una nuova fase della storia umana. Perche’ storica e non congiunturale e’ la portata della crisi in atto. E’ la crisi di un modello economico che non ha piu’ futuro, che non puo’ essere riorganizzato e migliorato ma deve essere sostituito.
(Tratto da: http://www.ariannaeditrice.it)
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