E' terminata il 20 gennaio la raccolta di firme sulla petizione lanciata il 13 ottobre scorso a Bruxelles dalle organizzazioni imprenditoriali e dai sindacati del settore tessile e dell”abbigliamento, per un commercio equo, trasparente e sostenibile. La petizione, rivolta alle istituzioni governative ed europee, chiede l”attivazione d”interventi di tipo commerciale, industriale, sociale e regionale, per far fronte alle sfide che il settore si trova ad affrontare, in particolare con l”eliminazione delle quote di esportazione, scattata il 1° gennaio, per i Paesi aderenti all”Organizzazione mondiale del commercio (WTO) [RSI News].
I promotori della petizione affermano che il recente ingresso della Cina nel WTO ha aggiunto una nuova e grave dimensione allo smantellamento delle quote. In alcune categorie di prodotto già liberalizzate, le esportazioni cinesi verso l”Europa sono più che triplicate, in volume, mentre i rispettivi prezzi sono crollati del 75%.
Questo non può dirsi commercio normale e tanto meno può essere accettato quale frutto delle particolari condizioni socio economiche delle imprese coinvolte (dumping sociale e ambientale). Si deve far di tutto perché una cosa simile non si ripeta dopo il 1° gennaio 2005, con un danno ancor più devastante per l”industria europea, alla luce delle sfavorevoli ragioni di scambio delle monete prodottesi con la sopravalutazione dell”euro, rispetto al dollaro, e dalla sottovalutazione della divisa cinese.
La petizione chiede che l”Unione europea aumenti i propri sforzi per far adottare, in tutti i Paesi, e quindi anche in Cina, i principali standard di tutela del lavoro e dei lavoratori e, più in generale, che si adoperi ad assicurare uno sviluppo sostenibile, sulla base della reciprocità , nel rispetto delle più elementari norme sociali ed ambientali. Anche per questi motivi, la Ue dovrebbe assicurare una maggiore trasparenza e un miglior controllo riguardo all”origine dei prodotti (made in…obbligatorio)
La Federazione sindacale europea del settore tessile osserva che i prezzi bassi cinesi, che distruggono i mercati, sono soprattutto il risultato di pratiche industriali e commerciali sleali.
Questi prezzi cinesi, che non temono concorrenza, sono senza dubbio il risultato di uno sfruttamento della manodopera: infatti, gli operai cinesi devono a volte lavorare più di 60 ore a settimana per guadagnare due o tre dollari al giorno, cosa che permette loro appena di sopravvivere; d”altro canto, questi operai non hanno né libertà sindacale né diritto di negoziazione collettiva.
La Cina viola dunque chiaramente i contratti collettivi relativi alle norme fondamentali dei lavoratori dell”Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) (divieto di lavoro forzato, libertà sindacale dei diritti di negoziazione, divieto di lavoro minorile, non discriminazione). Queste norme fondamentali, internazionalmente riconosciute e recepite nella dichiarazione dell”OIL del giugno 1998, sono da allora applicabili a tutti i membri dell”OIL, e dunque anche alla Cina.
Infine, la Cina è diventata il principale paese delle contraffazioni, dove si copiano e piratano allegramente i modelli europei.
Ma i sindacati europei richiamano l”attenzione anche sul fatto che la fine del regime delle quote e l”improvvisa crescita delle esportazioni provenienti da alcuni Paesi dominanti, non toccheranno solamente l”Unione europea ed altri Paesi industrializzati (Stati Uniti, Canada, etc.); le vittime principali saranno senza dubbio alcuni Paesi meno avanzati, come il Bangladesh (annuncio di soppressione di centinaia di migliaia di posti di lavoro), lo Sri Lanka, le Mauritius, il Messico.
Sinora dal governo italiano non è giunta alcuna risposta alla richiesta d”incontro con il presidente del Consiglio, avanzata da imprenditori e sindacati. Le segreterie nazionali di Femca-Cisl, Filtea-Cgil e Uilta hanno convocato per il 31 gennaio i Direttivi nazionali, per sviluppare e rafforzare una nuova fase di iniziative e mobilitazione nazionale, che proporranno anche alle associazioni imprenditoriali.
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