Eurolandia: l’orgia del potere

Il vergognoso attacco alle Istituzioni sovrane e alla fierezza del popolo ellenico, che sta proseguendo da oltre un anno ma che si è riacutizzato nell’ultimo frangente, palesa una volta di più la tracotanza con la quale le entità finanziarie e bancarie sovranazionali calpestano i diritti dei popoli, primo fra tutti quello all’autodeterminazione.

E’ dovere di ogni cittadino che abbia a cuore le istituzioni democratiche esprimere la propria vicinanza al popolo greco, soggiogato e soffocato dall’iniquo, ingiusto e fasullo cappio del debito pubblico, che altro non è se non l’esito dell’erosione della sovranità monetaria degli Stati. Oggi tocca alla Grecia, domani toccherà a tutti noi se non verranno radicalmente ripensate le logiche monetarie e non verrà restituita la possibilità alle autorità politiche di governare la moneta in ogni fase contestualmente al controllo nazionale sulla validazione monetaria in base alle esigenze dell’economia, ciò, si badi, non necessariamente con un abbandono del progetto Euro, quanto piuttosto con l’affiancamento di titoli emessi, a costo zero e parallelamente, dagli Stati sul proprio territorio, con le clausole del corso forzoso e della non convertibilità.

Ciò a fronte della constatazione che Eurolandia è un’area tutt’altro che solida e stabile finanziariamente: nazioni come Italia, Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e Belgio hanno indicatori di finanza pubblica e, più in generale, macroeconomici tutt’altro che esaltanti, per non parlare di altri paesi appartenenti al mercato unico europeo tramite l’Unione Europea (Romania, Bulgaria, Polonia…).  Pertanto va tenuto presente che una politica monetaria modellata sui parametri di Stati “solidi” (leggasi Germania) è un falso alleato, visto che, pur mantenendo bassa l’inflazione e, teoricamente, rendendo più appetibili gli investimenti, tarpa nella realtà dei fatti le ali alle esportazioni e al turismo, rendendo al contempo molto più competitive merci provenienti da altre aree valutarie, notoriamente svalutate artificiosamente. E va inoltre ridimensionato anche il beneficio generato dalla competitività nell’importazione di materie prime energetiche, poiché il fatto di pagare poco le fonti fossili disincentiva palesemente la ricerca e l’applicazione di altre fonti di approvvigionamento alternative ed ecocompatibili ancorandoci a politiche energetiche obsolete.

La grande reputazione acquistata sui mercati valutari dall’Euro, fin dalla sua introduzione nel 2002, è stata soprattutto il frutto della politica germanocentrica della BCE, pagata dalle altre economie continentali, e del contestuale impegno bellico statunitense che ha obbligato tale nazione a rifinanziarsi tramite svalutazione, dunque non certo per una forza propria acquisita sulla stabilità dei cambi, quanto piuttosto su un rally esogeno destinato a terminare con l’arrivo nel vecchio continente della crisi, cosa che si sta verificando ora e che ha portato ad un primo ridimensionamento destinato a continuare del rapporto Euro/Dollaro, ciò evidentemente a parità di altre condizioni e qualora non dovessero intervenire altri avvenimenti. Risulta evidente, difatti, che per molti Paesi tale politica monetaria non risponde alle esigenze delle economie. Non solo, ma abbiamo assistito negli ultimi anni ad una stagnazione economica su larga scala che ha ricevuto la mazzata finale dalla crisi finanziaria, poiché il credito facile avutosi in molti Paesi (Grecia, Romania, Spagna…) era stato l’unico volano di sviluppo, evidentemente artificioso come nel caso irlandese o spagnolo, anche per le imprese occidentali che avevano trovato nuovi mercati di sbocco una volta subito il ridimensionamento di quello statunitense e asiatico per la leva valutaria sfavorevole. Per dirla in breve: tramite una dilatazione della massa monetaria secondaria (creditizia, moneta bancaria) si è tamponata una situazione che vede la pesante e irreversibile crisi dell’attuale modello di sviluppo a partire dall’Europa, continente in cui si è sviluppato e maturato. Le insolvenze generalizzate e le chiusure industriali hanno obbligato i governi ad una spesa di riequilibrio in deficit per far fronte alle conseguenze di un aumento a doppia cifra della disoccupazione contestuale ad un crollo delle entrate fiscali, con pesantissime ripercussioni sui bilanci pubblici. Questa situazione è stata ampiamente fiutata dagli speculatori e dagli spazzasoldi che hanno lanciato operazioni short scommettendo sul rialzo dei tassi sui titoli di debito pubblico, già da un anno e mezzo con spread rispetto al Bund tedesco più che preoccupanti e con il concreto rischio di avere aste deserte, peraltro nel caso dell’Italia, con la fine dell’obbligo per la Banca d’Italia di acquistare i titoli invenduti (il cosiddetto “divorzio” del 1981), questo scossone ci vede privi di paracadute con la realistica ipotesi di dover rialzare nel breve-medio termine il tasso sui nostri titoli, con le prevedibili conseguenze del caso: ticket, tagli e tasse.

A essere fallito, tuttavia, non è tanto e solo il “capitalismo” marxianamente inteso, quanto piuttosto l’idea di crescita illimitata e continua, nozioni di cui i trattati europei hanno da sempre fatto baluardo. Il contestuale convergere del problema ambientale e il reale rischio default per diversi Stati non sono altro che le due facce della stessa medaglia: il modello di sviluppo che deve essere continuamente alimentato dall’espansione per poter ripagare gli interessi sulla moneta creata dal nulla da una banca centrale privata e autocratica. Questa rincorsa consuma irreparabilmente le risorse naturali obbligando all’erosione di ogni anfratto del nostro pianeta.

Alberto Leoncini

albertoleoncini@libero.it

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