Anche per il Fmi il capitalismo è fuori controllo. O lo regoliamo o ci distruggerà

(Antonella Serrecchia  – https://thevision.com)

Ida Minerva Tarbell è stata una delle prime donne a diventare un simbolo del giornalismo d’inchiesta, negli Stati Uniti dei primi anni del Novecento. In una delle poche foto che circolano di lei, è seduta alla scrivania, schiena diritta e penna alla mano. Muckrakers li chiamavano allora – o meglio in questo modo li chiamò Theodore Roosevelt, riferendosi a tutti quei giornalisti e scrittori che “scavavano nel fango” per raccontare la realtà. La sua inchiesta sugli abusi dell’allora uomo più ricco d’America John D. Rockefeller e della sua Standard Oil Company venne pubblicata su McClure’s Magazine in 19 episodi, per poi diventare un libro e, infine, un’inchiesta giudiziaria che portò la compagnia petrolifera a una condanna per violazione della legge sull’antitrust.

Recentemente, persino il Fondo monetario internazionale si è accorto del fatto che qualcosa non va. Lo scorso aprile, durante la conferenza primaverile del Fmi e della Banca Mondiale sono state presentate le prospettive future della crescita globale. In quest’occasione, l’economista Wenjie Chen ha spiegato come il potere di poche, grandi aziende sia aumentato molto negli ultimi vent’anni – con buona pace di Adam Smith, della mano invisibile e del presunto potere autoregolatorio insito nella competizione. 

Per gli economisti, una delle conseguenze più evidenti di questo fenomeno è che, insieme al potere delle corporate, è aumentato anche il costo dei loro prodotti: non a fronte di un miglioramento nella qualità o di una volontà di investire nella ricerca, ma solo in quanto le aziende hanno aumentato il proprio margine di profitto. Chen e i suoi colleghi hanno infatti analizzato quasi un milione di prodotti in 27 Paesi e hanno riscontrato che le aziende leader di settore hanno accresciuto i loro guadagni del 30% in meno di vent’anni, l’8% tutte le altre. Questo non significa solo costi maggiori per i consumatori. In attesa che il mercato si regolasse da sé, questo si è concentrato nelle mani di pochissime aziende, per la precisione 4: Google, Amazon, Facebook e Apple. Guardare alla crescita dei loro profitti negli ultimi dieci anni è impressionante: lo stacco che hanno creato in termini di potere di mercato rispetto alle altre aziende le rende praticamente immuni alla competizione. Cosa stanno restituendo alla comunità? Sicuramente poco in tasse, visto che per la maggior parte ha sede in paradisi fiscali e non paga invece laddove ottiene profitto. In molti gioiscono nel sentire che alcune di queste investono nella sanità, ad esempio, ma un mondo in cui è un’azienda privata a decidere della salute delle popolazione non è un mondo auspicabile. Non si tratta di uno scenario solo ipotetico: già oggi i numeri mostrano che non esiste nessuna spinta naturalmente filantropica nel management di una multinazionale privata. Tornando infatti al rapporto del Fmi, si legge che se il margine di profitto delle grandi aziende fosse rimasto invariato dal 2000 ad oggi, il Prodotto interno lordo delle nazioni industrializzate sarebbe di almeno un punto percentuale più alto, ci sarebbero stati maggiori investimenti nell’innovazione, più benessere e minore disuguaglianza. Ergo, maggiore potere alle grandi aziende significa solo maggiori profitti per le grandi aziende. Peraltro, affidarsi alla benevolenza di qualche tycoon per i servizi minimi di base non solo è volutamente naïf, ma anche ingiusto: non è con la beneficenza che si restituisce alla comunità, ma con un’equa tassazione. 

C’è poi un aspetto ancora più pericoloso da tenere in considerazione quando si parla dei pericoli del monopolio: l’accentramento del potere economico genera potere politico. Questo significa lobbying, ma anche rischio di condivisione di informazioni confidenziali rilevanti, trasformate in armi per la censura delle opposizioni. Ne sono un esempio lampante Jair Bolsonaro – eletto grazie al sostegno delle grandi aziende dell’agroalimentare, ha subito promesso di cedere buona parte del territorio della foresta amazzonica alla coltivazione – o la Cina di Xijinping – un regime comunista che ha molto più in comune con il capitalismo di quanto molti vogliano ammettere. Il rischio che piattaforme così pervasive e senza alcun controllo vengano utilizze per fini politici, poi, è stato reso piuttosto evidente anche in Occidente da scandali recenti come Cambridge Analytica o il Russia Gate.

Come ha fatto notare Anna Pigot su The Conversation, nella narrazione di questo fenomeno esiste però una distorsione che ci fa perdere di vista il nocciolo del problema: tendenzialmente, sulla stampa e nei report scientifici, la colpa del cambiamento climatico viene imputata a una generica “umanità”, un concetto tanto inclusivo quanto ingiusto. Non tiene infatti in conto che non tutti i componenti di questa massa umana hanno le stesse possibilità di scelta, né le stesse responsabilità; banalmente, un capo di Stato, o il ceo di una multinazionale altamente inquinante hanno molto più potere di un cittadino medio e un cittadino medio della campagna indiana ha decisamente meno possibilità di scelta nell’acquisto e nei consumi di un cittadino medio della Silicon Valley.  Se però il primo genere di divario è insito in qualsiasi forma di governo, rappresentativa e non, e potrebbe inoltre essere superato se pensiamo che anche le piccole azioni contano moltissimo, il secondo è molto più difficile da scardinare, specialmente se non siamo disposti a mettere in discussione il sistema produttivo in cui viviamo.

È scontato che il capitalismo è un’invenzione umana, ed è chiaro che la logica predatoria dello sfruttamento delle risorse per il profitto non è una prerogativa delle democrazie liberali e liberiste: l’industrializzazione forzata a cui sono stati sottoposti Paesi come la Cina e la Russia non è stata certo a costo zero, né per l’ambiente, né per gli esseri umani. Non è passando da un regime assolutista e disumanizzante a un altro, altrettanto assolutista e disumanizzante, che potremo uscire da questa spirale negativa, ma è accettando l’evidenza: l’accentramento del potere di mercato e delle ricchezze non è sostenibile così come lo sfruttamento predatorio delle risorse – umane e ambientali – e la sovrapproduzione per l’aumento del margine di profitto. Riconoscere questi problemi, e individuare nell’assenza di regolamentazione del capitalismo il filo rosso che li lega tutti, è fondamentale per la loro risoluzione.   

Tratto da https://thevision.com/attualita/fmi-capitalismo-fuori-controllo/

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