L’età pensionabile e le generazioni future

di Luciano Messori

L’attuale dibattito sull’opportunità di dar seguito all’innalzamento dell’età pensionabile previsto dalla normativa vigente in conseguenza dell’aumento della speranza di vita degli italiani rilevato dall’ISTAT ha il difetto di non tenere in sufficiente considerazione alcuni fatti importanti.

Per confrontarsi in modo serio sul tema delle pensioni occorre per prima cosa ricordare che il nostro è un sistema pensionistico a ripartizione. Come noto, questo vuol dire che i contributi previdenziali versati dai lavoratori in attività sono utilizzati per pagare le pensioni di chi in quel momento è già a riposo. Le pensioni di questi lavoratori saranno poi pagate utilizzando i contributi previdenziali versati da chi lavorerà quando loro saranno in pensione, e cosi via.

Si tratta di un sistema la cui sostenibilità si basa sul presupposto che il rapporto tra la numerosità delle generazioni in età lavorativa e quella degli anziani in pensione sia sufficientemente elevato da permettere di pagare le pensioni a questi ultimi senza generare un peso insopportabile sui lavoratori.

Un indicatore di questo rapporto può essere identificato nell’indice di dipendenza senile della popolazione, che rappresenta il numero di anziani di 65 o più anni per ogni 100 individui di età compresa tra 15 e 64 anni (quindi almeno potenzialmente in età lavorativa).

Nel 1974, quindi all’epoca in cui il governo Rumor varò il famoso DPR 1092 (quello che istituì le cosi dette baby pensioni) l’indice di dipendenza senile della popolazione italiana era pari a 18,3. Questo vuol dire che per ogni 100 individui di età compresa tra 15 e 64 anni esistevano 18,3 anziani di 65 o più anni.

All’inizio del 2017 l’indice di dipendenza senile della popolazione italiana era salito a 34,8. Tra il 1974 e il 2017 nel nostro paese il numero di anziani per ogni 100 persone in età lavorativa risulta quindi quasi raddoppiato. La tendenza per il futuro è di un ulteriore aumento di questo indicatore.

Questo vuol dire che in futuro ci saranno sempre meno lavoratori a versare i contributi previdenziali e sempre più anziani a riscuotere le pensioni. Se non vogliamo che l’onere a carico di questi lavoratori, che sono i nostri figli, diventi insostenibile, l’unica soluzione è quella di aumentare l’età pensionabile. In un mondo come il nostro nel quale il lavoro richiede mediamente sempre meno sforzo fisico questa soluzione sarebbe largamente fattibile e avrebbe l’ulteriore pregio di permettere alla collettività di non privarsi anzitempo dell’esperienza acquisita dai lavoratori più anziani. Questa esperienza avrebbe effetti positivi sulla produttività del nostro sistema economico e quindi contribuirebbe a creare più posti di lavoro per i giovani.

Un altro motivo per il quale l’innalzamento dell’età pensionabile non solo non toglierebbe lavoro ai giovani, come si è comunemente portati a credere, ma anzi contribuirebbe a creare lavoro per i giovani è dato dal fatto che con l’aumento del rapporto tra numero di pensionati e numero di persone in età lavorativa, che si verificherebbe a causa delle tendenze demografiche in atto nel nostro paese se non venisse innalzata l’età pensionabile, la sostenibilità economica del nostro sistema previdenziale potrebbe essere garantita solo da un’ulteriore innalzamento dell’aliquota dei contributi previdenziali a carico delle imprese. Questo innalzamento genererebbe un aumento del costo del lavoro e quindi una diminuzione della quantità di lavoro domandata dalle imprese (naturalmente a parità di altre condizioni).

Un rinvio dell’innalzamento dell’età pensionabile significherebbe che vogliamo continuare a scaricare il problema della sostenibilità del nostro sistema previdenziale sulle generazioni future. Queste ultime, poste di fronte all’alternativa di rimanere in Italia a farsi carico dei nostri diritti acquisiti o di emigrare, sarebbero prevedibilmente incentivate in misura ancora maggiore rispetto a oggi a preferire quest’ultima soluzione.

 

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