Il trambusto nel mercato azionario cinese è un segno di ciò che sta per arrivare?

di Jérome Roos

Per i mercati mondiali l’inizio dell’anno è stato tetro. Dopo che le transazioni sul mercato azionario cinese sono state sospese due volte la settimana scorsa, quando un crollo dei prezzi delle azioni ha innescato un “salvavita” automatico mal concepito, il conseguente panico degli investitori internazionali ha colpito più di 2,3 trilioni di dollari di azioni in tutto il mondo, segnando il peggior inizio mai registrato di un anno finanziario.

Ma anche se il subbuglio nel mercato azionario cinese ha attirato tutta l’attenzione e dominato i titoli della stampa in tutto il mondo, la vera minaccia all’economia mondiale non sta nella borsa speculativa del paese, bensì nella sua economia reale; più specificamente nella sua crescita in rallentamento, nel crollo della bolla creditizia, nelle estreme pressioni per la svalutazione dello yuan e nello spettacolare crollo dei prezzi del petrolio e delle materie prime cui tutto questo sta contribuendo.

Quest’anno la Cina è destinata a registrare i suoi tassi di crescita più bassi in quasi tre decenni, mentre il renminbi estero è appena sceso al suo livello più basso contro il dollaro dal 2010. I prezzi del petrolio sono già scesi del 20 per cento nelle prime due settimane dell’anno in mezzo a preoccupazioni degli investitori per il calo della domanda cinese. Alcuni oggi ritengono che il prezzo del petrolio potrebbe scendere sino ai 10 dollari il barile.

Visto in questa luce, il crollo del mercato azionario cinese non è che un sintomo di problemi più profondi nella seconda più vasta economia del mondo e forse un segnale preoccupante di ciò che sta per arrivare.

Arrivando sulla scia di un altro grosso periodo di volatilità del mercato l’estate scorsa, l’attuale instabilità finanziaria offre un’ulteriore prova che l’epica tripla bolla creditizia cinese, che ha già alimentato grandi boom dei titoli dell’edilizia e dell’industria e che ha poi contribuito a un peculiare balzo del 146 per cento dell’Indice Composto di Shanghai tra la metà del 2014 e la metà del 2014, è ora in varie fasi di collasso. La sola cosa su cui gli analisti sembrano ancora dissentire è se ci sarà uno schianto o un atterraggio morbido.

La People’s Bank of China e il Partito Comunista faranno indubbiamente il massimo per cercare di rendere l’atterraggio il più morbido possibile, difendendo il valore del renminbi contro le pressioni speculative e continuando contemporaneamente a puntellare l’indifendibile bolla creditizia. Ma anche se le autorità cinesi hanno a loro disposizione un considerevole arsenale finanziario, alla fine possono fare poco più che guadagnare tempo, accumulando cattivo debito su altro cattivo debito in una scommessa disperata per prevenire l’inevitabile momento della resa dei conti.

Alcuni analisti ritengono ora che le banche cinesi necessitino di sino a 7,1 trilioni di dollari di nuovo capitale e finanziamenti nei prossimi tre anni per compensare il crollo delle valutazioni delle azioni e la crescente percentuale di insolvenze interne. Questi salvataggi bancari potrebbero a loro volta spingere il rapporto tra il debito governativo e il PIL a schizzare dal 22 al 122 per cento, un aumento sconvolgente per un mastodonte economico in rapida crescita come la Cina.

Il conseguente problema del debito sovrano andrebbe ad aggiungersi a un vasto aumento del debito privato non finanziario, che è schizzato dal 100 per cento al 250 per cento del PIL sulla scia del programma di stimolo del 2008-09 quando il governo cinese ha incoraggiato la crescita del settore bancario ombra del paese in un tentativo di compensare le pressioni recessive provenienti dall’America del Nord e dall’Europa. Il debito totale è quasi quadruplicato tra il 2007 e il 2015.

Tutto questo si è accompagnato all’intensificazione della fuga di capitali, che sta gradualmente erodendo le riserve di valuta (tuttora considerevoli) della Cina. Si stima che i deflussi abbiano raggiunto il trilione di dollari nel 2015, determinando una caduta di 512 miliardi di dollari delle riserve. Nel solo dicembre la banca centrale ha perso circa 120 miliardi di dollari nell’intervenire disperatamente sul mercato dei cambi per evitare le pressioni alla svalutazione a fronte dell’intensificazione della fuga dei capitali e alla speculazione montante sulla moneta.

Ambrose Evans-Pritchard del The Telegraph stima oggi che “la Cina è pericolosamente prossima a una crisi di svalutazione con lo yuan che minaccia di sfondare il pavimento delle sue riserve di valuta, nonostante massicci interventi della banca centrale a difesa del rapporto di cambio”.

Tutto questo sta determinando un umore cupo negli investitori all’estero. In una nota ai propri clienti la Royal Bank of Scotland ha appena avvertito di un “anno da cataclisma” per l’economia mondiale, prevedendo un crollo del mercato azionario globale sino al 20 percento e sollecitando gli investitori a “vendere tutto, salvo i titoli elevata qualità”, facendo notare che “in una sala affollata, le uscite sono piccole”. Il responsabile della banca per il credito ha aggiunto che “la Cina ha avviato una grossa correzione e sta per trasformarsi in una valanga”.

Primi nella linea del fuoco saranno i mercati emergenti che nello scorso decennio sono stati attirati nell’orbita del boom internazionale delle materie prime alimentato dalla Cina. Il rallentamento cinese e il ridimensionamento del boom delle materie prime negli ultimi due anni hanno innescato una forte caduta dei prezzi delle materie prime e una serie a cascata di recessioni in tutto il mondo in via di sviluppo, specialmente pronunciata in Brasile e nel resto dell’America Latina.

Ma anche se i problemi saranno indubbiamente concentrati nei mercati emergenti, gli USA e l’Europa non saranno risparmiati dalla ricaduta. La City di Londra è particolarmente vulnerabile, poiché il suo settore finanziario ha un’esposizione considerevole nei confronti della Cina, mentre Wall Street si sta già confrontando con una crisi domestica dei suoi stessi titoli spazzatura, prevalentemente di compagnie energetiche che attualmente stanno andando in bancarotta in conseguenza della caduta dei prezzi del petrolio.

In breve, sussistono oggi tutte le condizioni per una replica della crisi finanziaria del 2008. A questo scenario da giorno del giudizio è stato recentemente aggiunto altro peso dalle Previsioni Economiche Globali della Banca Mondiale per il 2016, che hanno avvertito di una “tempesta perfetta” di crescita che rallenta nei mercati emergenti e che congiura con una rinnovata tensione nei mercati finanziari globali.

Entrambe le dinamiche sono destinate a essere intensificate dalla decisione della Federal Reserve USA di smontare il suo programma di stimolo monetario e di cominciare ad aumentare, per la prima volta da un decennio, i tassi d’interesse. La fine del credito a basso prezzo spingerà in alto il costo dell’indebitamento nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo, innescando un effetto onda nell’economia mondiale e creando ulteriore volatilità nei mercati dei titoli industriali e dei mercati emergenti.

Queste potrebbero essere le scosse di un terremoto da lungo atteso? A ciascuno la sua risposta, a questo punto, ma se le tendenze delle ultime due settimane proseguiranno al ritmo attuale l’economia mondiale può essere prossima a un periodo davvero molto travagliato. Con un po’ di fortuna e di altri errori di politica, il subbuglio del mercato in gennaio potrà ben essere ricordato come l’inizio di una terza fase spettacolare delle crisi finanziaria globale.

Jerome Roos ha un dottorato di ricerca in economia politica internazionale presso l’Istituto Universitario Europeo e fondatore di ROAR Magazine.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/is-chinas-stock-market-turmoil-a-sign-of-whats-to-come/

Originale: teleSUR English

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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