Isis, terroristi? Ecco le colpe dell’Occidente

di Paolo Sensini – 23/11/2015 Fonte: Affari Italiani

Dopo gli attentati di Parigi i media si sono interrogati per giorni su chi fossero realmente i terroristi che hanno colpito e, ciò che più importa, l’identità dei loro mandanti. Fin da subito tutta l’attenzione si è indirizzata sullo Stato Islamico che, come hanno subito riferito i mezzi d’informazione, non ha perso tempo a rivendicare la paternità della carneficina. Caso risolto, dunque? Niente affatto…
Dopo gli attentati di Parigi i media si sono interrogati per giorni su chi fossero realmente i terroristi che hanno colpito e, ciò che più importa, l’identità dei loro mandanti. Fin da subito tutta l’attenzione si è indirizzata sullo Stato Islamico che, come hanno subito riferito i mezzi d’informazione, non ha perso tempo a rivendicare la paternità della carneficina. Caso risolto, dunque? Niente affatto, perché il vero problema di cui occorre venire a capo inizia solo ora.

E si tratta di un problema non certo piccolo, perché da quel punto in avanti il circo mediatico ritiene di aver svolto il proprio compito e chiunque voglia procedere oltre deve intraprendere un complicato slalom per non trovarsi affibbiato una bella etichetta di “complottista”. È un déjà-vu visto all’opera un numero imprecisato di volte, ma che viene immancabilmente affibbiato a chiunque si provi di varcare il fortilizio del “politicamente-mediaticamente corretto”. Il che, nella situazione attuale, è una delle accuse più infamanti da cui ogni “operatore dell’informazione” che vuole continuare a lavorare si tiene bene alla larga.
Si è parlato molto in questo periodo dei rapporti ambigui e delle “zone grigie” che Arabia Saudita, Qatar e Turchia avrebbero intrattenuto con al-Qaida, l’ISIS e quindi, di rimando, con i terroristi che hanno colpito a Parigi. Ma si è approfondito ben poco la natura dei rapporti tra l’America e i paesi in questione.
Innanzitutto bisogna chiarire che i legami tra Stati Uniti e Casa Sau’d non sono un fatto recente e tantomeno una parentesi episodica, ma fanno parte di un’alleanza di ferro siglata il 14 febbraio del 1945 tra Franklin Delano Roosevelt e il re saudita ‘Abd al-‘Aziz Al Sa’ud, il cosiddetto “Patto di Quincy”. Tale accordo ha permesso agli Stati Uniti di garantirsi un approvvigionamento energetico duraturo in cambio della protezione del suo vassallo nell’affrontare i comuni avversari nella regione, in particolare il nazionalismo arabo e l’Iran.
Quell’accordo stabilito con la feudo-monarchia saudita, insieme al legame strategico intrattenuto con Israele soprattutto dal 1967 in avanti, è il fulcro attorno a cui ruotano tutte le politiche statunitensi nell’area mediorientale e dal quale discendono gli sconquassi che vediamo all’opera e che ci accompagneranno per lungo tempo.
Il patto leonino tra America, Israele e Arabia Saudita ha fatto sì che quest’ultima abbia considerato di sua pertinenza l’intero spazio mediorientale con relative risorse. Per questo i sauditi, forti dell’alleanza militare con gli USA e intenzionati a portare avanti la loro politica egemonica anche dal punto di vista religiosa dentro il mondo islamico, hanno finanziato i mujahidin afghani contro l’URSS negli anni ’80 e foraggiato Saddam nel conflitto contro l’Iran sciita. Ma gli obiettivi che i monarchi vogliono raggiungere puntano in alto, decisamente più in alto, e hanno garanzia di essere raggiunti solo facendo saltare per aria gli involucri statali emersi dall’accordo Sykes-Picot tra inglesi e francesi, le potenze mandatarie che si erano spartite il Vicino e Medio Oriente dopo la Prima Guerra mondiale.
Com’è noto, tutta l’area è formata da paesi che hanno al proprio interno svariate componenti etniche, tribali e di diversa confessione religiosa, la più vistosa delle quali è senz’altro quella tra sunniti e sciiti. Componenti che spesso nel corso della storia sono entrate in conflitto tra loro per questioni di egemonia. Ecco che allora, facendo leva su questa debolezza strutturale di cui è innervato tutto il Medio Oriente, è possibile modulare una politica che tenda in prospettiva a ridisegnare l’intera cartografia politica del territorio. Uno scenario, in altre parole, sul quale hanno sempre puntato sia gli statunitensi e i suoi satelliti del Golfo, ma a cui non è affatto estranea neppure Israele.
Agli Stati Uniti non è mai importato nulla che l’Arabia Saudita fosse una Teocrazia islamica o Israele uno “Stato Ebraico”, cioè fondato sulla religione o la discendenza razziale, due elementi completamente estranei al concetto stesso di democrazia così come si è sviluppata in Occidente. Ed è per questo che tutte le guerre recenti sono state fatte non già per togliere di mezzo gli Stati teocratici ostili alla way of life occidentale, quanto invece per eliminare quei paesi che, pur in mezzo a grandi difficoltà e contraddizioni interne, erano laici e tendenzialmente secolarizzati come Iraq, Libia e Siria.
Nei giorni dopo i fatti di Parigi il “Financial Times” ha riportato una frase stupefacente del defunto principe Saud Feisal al segretario di Stato USA John Kerry: “Daesh [l’ISIS] è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio in Iraq agli sciiti dopo la caduta di Saddam”, che mostra plasticamente quale sia il grado d’intossicazione nei rapporti tra Stati Uniti e fondamentalismo wahhabita.
Per questo il presidente siriano, che da cinque anni è assediato da terroristi più o meno “moderati”, nel corso di un’intervista rilasciata dopo gli attentati parigini ha evidenziato tale punto mettendo in luce il tasso d’ipocrisia e malafede che alberga nelle cancellerie occidentali: “Se hai un problema con la democrazia nello Stato siriano – si è chiesto infatti Bashar al-Assad -, come puoi avere buone relazioni e amicizia con i peggiori Stati al mondo, con i paesi più sottosviluppati dal punto di vista democratico come Arabia Saudita e Qatar? Con questa contraddizione si perde credibilità”.
Ma agli Stati Uniti e ai suoi alleati interessa ben poco di una merce come la “credibilità”, perché ciò che conta nella loro agenda di politica internazionale sono principalmente i rapporti di forza. In questo senso i sauditi pagano e gli americani guidano coalizioni che ai loro occhi non devono abbattere il Califfato, ma prima di tutto ridimensionare l’Iran e togliere di mezzo Assad in Siria. Dice bene quindi Alberto Negri quando osserva che “la Saudi Connection condiziona la politica estera americana quanto l’alleanza con Israele”.
Ma in questo modo, invece di stroncare il terrorismo internazionale nel nome del quale l’Occidente dice di essere in guerra dal settembre 2001, non si è fatto altro che allargare a dismisura il bacino dei suoi potenziali aspiranti disseminandoli dovunque.
I sauditi dopo l’accordo sul nucleare iraniano si sono sentiti messi all’angolo da Washington perché considerano Teheran la minaccia numero uno. Ma una minaccia solo fino a un certo punto. In termini pratici ciò significa che mentre Obama e Re Salman si stringevano la mano al G-20 di Antalya veniva firmato l’ennesimo contratto militare: 1,3 miliardi di dollari per 19.000 sofisticate bombe USA, 2.000 delle quali fra le 500 e le 2.000 libbre, 1.500 bunker-buster (per distruggere bunker sotterranei) e 6.000 bombe a guida laser. Per questo le ragioni che hanno frenato la guerra al sedicente Califfato risiedono in un mix di affari militari, petrolio e investimenti esteri di una Monarchia dove si applica la Sharia più duramente di qualunque altro posto al mondo.
Ma nel “Grande Gioco” che coinvolge il Medio Oriente non vi è solo l’Arabia Saudita. Ne fanno parte a vario titolo anche gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, la Turchia, che è al contempo membro NATO e grande sponsor dell’ISIS, oltre ovviamente al Qatar.
Secondo una ricostruzione del giornale britannico “The Guardian”, gli jihadisti sarebbero finanziati da quest’ultimo almeno dal 2009, quando il presidente siriano Assad rifiutò la proposta dell’emiro del Qatar di costruire un gasdotto che si sarebbe collegato all’Europa in concorrenza con il pipe-line della Russia di Vladimir Putin, alleato dei siriani. Il progetto della Qatar Petroleum per rifornire l’Europa di gas partendo dal Qatar e dall’Arabia Saudita – via Siria – per ricollegarsi al gasdotto Nabucco, corrisponde agli interessi strategici della Casa Bianca che sta cercando in tutti i modi di escludere la Gazprom dal mercato europeo.
Si tratta di una partita estremamente complessa e sfaccetta che pone in campo interessi giganteschi dal quale nessuno è escluso. Per dare un’idea di quelli che concernono l’Italia, basti dire che nel settembre 2012 è stato fatto un accordo di grande importanza tra la maggiore agenzia di notizie italiana, l’ANSA, con l’omologa agenzia del Qatar, la Qatar News Agency. Risultano dunque evidenti gli aspetti di carattere politico-militare di tale accordo, che va considerato un passo ulteriore nella militarizzazione dell’informazione riguardante i teatri del Vicino Oriente. Da un cablo reso noto da WikiLeaks, la sede diplomatica statunitense di Doha comunica infatti che “il Qatar sta usando Aljazeera come merce di scambio nelle sue negoziazioni diplomatiche, adattando la copertura della tv nei confronti dei leader stranieri e offrendo di fermare le trasmissioni più critiche in cambio di maggiori concessioni”.
Ma l’attivismo del Qatar si muove in tutte le direzioni e ha investito nel solo comparto degli hotel italiani una cifra che si aggira sugli 800 milioni di euro. A Milano, nel febbraio 2015, il fondo sovrano dell’emirato ha comprato per una cifra mai rivelata il 100% dell’intera area di Porta Nuova, nota al grande pubblico perché sulla sua superficie sorgono il grattacielo, sede di Unicredit, e il cosiddetto Bosco verticale.
Gli interessi qatarini in Italia non si limitano però solamente a immobiliare, turismo e informazione. Dopo l’uscita del capitale di Dubai, Doha è diventato il primo azionista della Borsa di Londra, che dal 2007 ha rilevato anche Piazza Affari. La prima acquisizione di grido, però, porta il nome della maison del lusso Valentino, rilevata nel 2012 dal Fondo Permira per 700 milioni di euro. Pochi mesi dopo, a ottobre, l’allora premier Mario Monti è tornato dal Qatar con in tasca l’accordo per la nascita di una joint venture paritetica tra il Fondo strategico italiano (Fsi), la holding controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti, e la Qatar holding (Qh): “Iq made in Italy venture”, una società con un capitale di 300 milioni di euro che salirà a due miliardi con lo scopo di investire in settori chiave dell’ex Bel Paese.
Verrà quindi da chiedersi: come fa un paese più piccolo della Puglia a disporre di così tanti quattrini? Semplice, l’improvvisa liquidità degli al-Thani, gli emiri del Qatar, viene dal giacimento di gas condensato chiamato South Pars/North Dome. In cifre, si tratta di 51 trilioni di metri cubi di gas, per lo più sotto il mare. Il Qatar possiede quindi un terzo delle riserve mondiali di gas, ma ha un disperato bisogno di un mercato come l’Europa per venderle. E la Siria, in questo complicato risiko geopolitico, ha la grave colpa di aver ostacolato un possibile sbocco.
Al quadro appena esposto bisogna poi aggiungere un ultimo tassello per capire fino a che punto Arabia Saudita e Qatar si stiano spingendo avanti in questa loro manovra di “avvolgimento”. In seguito alla massiccia ondata migratoria proveniente da Africa, Medio Oriente e Asia che si sta riversando in Europa, hanno incominciato a fiorire un po’ dovunque centri studi islamici e si pone in continuazione l’urgenza di aprire sempre nuove moschee e luoghi di culto sui vari territori.
Indovinate un po’ da dove provengono i fondi e chi ne sono i finanziatori? Bravi, risposta esatta, perché anche in questo campo Arabia Saudita e Qatar non hanno fatto mancare la loro proverbiale e soprattutto disinteressata generosità. Gran parte dei soldi per costruire le moschee e formare il clero che dovrà predicarvi arrivano proprio da loro, e ovviamente l’Islam che si sta imponendo un po’ dovunque è quello improntato al culto wahhabita e salafita, il più brutale e sanguinario di tutta la galassia islamica. Lo stesso culto che peraltro viene professato dall’ISIS e contro il quale l’Occidente è impegnato da circa un quindicennio in una “guerra di civiltà”. Capite in che situazione ci troviamo a vivere?

Tratto da:http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=52450

 

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