Il welfare da rifare

di Ilvio Pannullo

E’ tempo per il paese di cambiare il proprio sistema di ammortizzatori sociali. A sostenerlo, ancora una volta, e’ stato il presidente della Banca d’Italia Mario Draghi che, in seguito alle polemiche sollevate dopo il suo intervento tenuto in giugno, e’ tornato a ripetersi venerdi scorso tenendo una lectio magistralis, in occasione della laurea honoris causa ricevuta dalla facolta’ di Statistica dell’Universita’ di Padova. “Circa 1,2 milioni di lavoratori dipendenti – ha commentato il governatore – non avrebbero copertura in caso d’interruzione del rapporto di lavoro. A questi si affiancano 450mila lavoratori parasubordinati che non godono di alcun sussidio o che non hanno i requisiti per accedere ai benefici introdotti dai provvedimenti del governo”. Una cifra che se paragonata ai 23,4 milioni di lavoratori censiti dall’Istat, stando ai dati diffusi nel 2008, sta a significare che quasi il 7% dei lavoratori in Italia e’ privo di qualsiasi tipo di protezione davanti al licenziamento.

Il sistema degli ammortizzatori sociali rischia, infatti, di assumere paradossalmente anch’esso la peculiare caratteristica, tutta italica, del privilegio, con lavoratori tutelati in caso di perdita del posto di lavoro, al fianco di poveri disgraziati abbandonati a se stessi nel momento di massimo bisogno. Da qui la necessita’ di una radicale riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, che porterebbe “benefici per l’efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l’equita’ sociale.’

Sprezzante del senso del ridicolo, forse ignorando che la logica liberista e’ alla base dei disastri che hanno colpito recentemente le economie di mezzo mondo, il governatore tuttavia puntualizza che “essa e’ oggi il prerequisito per un’estensione della flessibilita’ del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti”. Se dunque il consiglio dato al governo si spera venga ascoltato dal responsabile di via XX settembre – quel Giulio Tremonti tanto osteggiato e fastidioso – l’obiettivo cui mirare una volta realizzata la riforma appare certamente da scongiurare.

Va detto, infatti, che il pressante invito del governatore rappresenta la cristallizzazione di un’esigenza oramai non piu’ procrastinabile. L’attuale sistema di protezione sociale e’ figlio, infatti, della rivoluzione industriale e di una logica nella quale il lavoro umano era indispensabile e costituiva la parte piu’ rilevante del processo produttivo, mentre oggi la rivoluzione tecnologica e la finanziarizzazione dell’economia aprono scenari incompatibili con la realta’ vetero-industriale, imponendo una radicale rivisitazione del concetto stesso di previdenza sociale.

Il finanziamento della sicurezza sociale non puo’ piu’ essere posto a carico delle individuali contribuzioni agli istituti previdenziali e, per converso, il diritto alle prestazioni tende ad assumere una valenza sempre piu’ universalistica. La garanzia dei bisogni essenziali della persona costituisce poi, oggigiorno, il compito caratterizzante dello Stato, nell’ambito del quale vanno costruite nuove solidarieta’ per descrivere nuovi rapporti tra la gestione della cosa pubblica e la comunita’ che esprime la nazione. Invenzione europea, essa ha contribuito alla stabilizzazione dello sviluppo economico e alla sua armonizzazione rispetto ai mutevoli bisogni sociali. Tuttavia, nonostante il suo indiscutibile successo storico, la protezione sociale e’ entrata nel suo secondo secolo di vita in condizioni di tensione e d’incertezza.

Figlia dell’eta’ industriale dello Stato nazionale si trova, ora, alquanto disorientata nel mezzo di un nuovo contesto socio-economico caratterizzato dalla transizione verso modelli produttivi postindustriali, da una crescente globalizzazione e da rapidi mutamenti dei rapporti demografici. Le societa’ europee della prima meta’ del secolo 19º, epoca del perfezionamento dei sistemi di welfare, erano infatti ormai solidamente industrializzate: la ricchezza nazionale che in esse veniva prodotta era frutto principalmente della produzione industriale, vista la progressiva perdita d’importanza del settore agricolo e’ la quasi totale assenza di quello che oggi viene definito settore terziario. L’occupazione era quindi prevalentemente di tipo industriale e si riteneva in questo settore potesse soddisfare le continue richieste occupazionali, garantendo cosi raggiungimento di un livello di piena occupazione. Oggi tutte queste condizioni sono profondamente mutate.

Il settore industriale continua a perdere peso a vantaggio del settore terziario che assicura buona parte della ricchezza nazionale prodotta; la parabola discendente delle aree geografiche a piu’ alta densita’ industriale mostra come le produzioni di massa siano ben lungi dall’assicurare, attualmente, la piena occupazione. La vita lavorativa di fasce sempre piu’ numerose di persone si e’ fatta discontinua e sempre piu’ spesso ai limiti della precarieta’. Il ruolo che le donne rivestono all’interno della societa’ e’ poi completamente mutato, cosi com’e’ cambiato l’assetto tradizionale della famiglia, sempre piu’ spesso con un solo componente, per lo piu’ giovani o anziani. Sono cresciuti i gruppi maggiormente esposti al rischio di poverta’ ed e’ aumentata l’occupazione femminile di media ed elevata qualificazione. In parallelo si sono modificati i bisogni e le esigenze.

Le modifiche alla struttura produttiva richiedono dunque una parallela trasformazione del Welfare tradizionale: e’ evidente che un sistema di sicurezza costituitosi all’interno di una fase economica e sociale tanto diversa, stenti ad essere rispondente proprio a quelle esigenze che ne hanno determinato storicamente il sorgere. Si assiste, infatti, in questa fase storica alla paradossale situazione nella quale il welfare e’ finanziato dai contributi sul lavoro dei singoli, ma proprio in ragione di tale costo l’occupazione diminuisce e si assiste al fenomeno del dumping sociale e alla conseguente delocalizzazione delle imposte, alla ricerca di un basso costo del lavoro.

Diversamente da giugno – quando il presidente del consiglio derubrico’ l’intervento del governatore come l’impropria uscita di un non addetto ai lavori cui non si doveva prestare ascolto – questa volta il governo ha preferito rispondere con il silenzio. Il ministro dell’economia Tremonti ha, infatti, dato modo di pensare chiaramente che uno ed uno soltanto e’ il suo parametro di valutazione nella scelta delle politiche economiche da adottare: la tutela della finanza pubblica. “Sui conti pesa il costo del maggior debito che rappresenta poi la nuova tassa che ci viene imposta dalla crisi. Una tassa – ha detto in modo falsamente ironico il Robin Hood dei ricchi – che non possiamo evadere’.

Il ministro sembra, infatti, perseguire una linea di immobilismo locale ed affidarsi, parallelamente, alla speranza di un dinamismo globale che faccia ripartire le esportazioni, vero punto di forza dell’economia italiana. In altre parole non spendere nulla, fare cassa in ogni modo, dallo scudo fiscale al congelamento dei crediti che le aziende godono nei confronti degli ospedali e delle asl, in attesa che la ripresa economica trascini in alto anche il nostro disgraziatissimo paese.

Una speranza che sara’ vana se in questa lunghissima fase recessiva, in cui sono stati precipitati tutti i soggetti economici variamente collegati all’area di influenza angloamericana, non saranno affrontati tutti quei problemi strutturali che prima della crisi facevano dell’Italia una protagonista di secondo piano nella scena internazionale. Il rischio e’ infatti quello di ritrovarci, al momento della ripresa, con un paese non piu’ periferia dell’Occidente industrializzato, ma primo della classe tra gli ultimi paesi del mondo.

(Tratto da: http://www.altrenotizie.org)

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