In Italia sono attive nel settore soprattutto l’Università di Padova e la Bocconi di Milano. La prima, attraverso il professore Giuseppe Sartori, docente di neuroscienze cognitive, studia con un software chiamato “autobiographical Iat” le intenzioni reali di acquisto, aggirando le bugie e gli inganni dei consumatori; la seconda, grazie al lavoro della docente Isabella Soscia, indaga le emozioni connesse al consumo, cercando strumenti per aumentarle o diminuirle a seconda della volontà aziendale.
Spiega Enrico Valdani, professore di marketing strategico nell’ateneo milanese, che ha anche organizzato di recente il primo convegno italiano sul neruomarketing: “Oggi tecniche sofisticate ci permettono di interpretare le reazioni del consumatore quando è sottoposto ad uno stimolo; l’obiettivo è di rendere sempre più efficace l’adozione di certi stimoli, così da ridurre il tasso di insuccesso di uno spot, di un prodotto o di un certo tipo di esposizione della merce”.
Negli Stati Uniti questo filone di ricerca ha già trovato applicazione in progetti di marketing che sembrano usciti da un romanzo di Orwell. La società americana Recordant, per esempio, registra le conversazioni dei clienti nei supermercati con un sistema audio digitale posizionato attorno al collo dei commessi, garantendo studi ad hoc in grado di far aumentare le vendite; Nielsen Media, invece, ha avviato, per aziende come Procter & Gamble e Wal-Mart, un monitoraggio che prevede l’uso di sensori all’entrata e all’uscita delle corsie dei centri commerciali per capire come sfruttare al meglio le probabilità di combinazione dei prodotti sugli scaffali.
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