Make G8 History

Si apre a Gleneagles, in Scozia, l'incontro annuale fra gli otto principali paesi industrializzati della terra (G8). Le performance musicali di questi giorni (che hanno visto le più affermate rock star internazionali fare festa all'Africa senza africani), amplificate dai mass media del “piccolo villaggio globale”, sembrano aver creato una aspettativa che i capi di governo dei paesi del G8 non possono deludere. Riusciranno a farlo? Se si guarda ai precedenti meeting la risposta non puàƒÂ² essere che un secco no [Roberto Meregalli].


Nel menù preparato da Tony Blair spiccano due temi di primaria importanza: i cambiamenti climatici e l'Africa. Il continente nero è oggetto da tempo di particolari attenzioni in Gran Bretagna, Blair ne ha fatto un cavallo di battaglia nelle recenti elezioni ed il governo inglese era giunto a criticare apertamente la strategia della commissione europea nel negoziato con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) per la definizione di nuovi accordi di libero scambio (noti come EPAs, Economic Partnership Agreements). Nel mese di maggio aveva fatto rumore (sui giornali inglesi) l'invito rivolto da Peter Mandelson (commissario al commercio) al proprio governo perchàƒÂ© cambiasse l'approccio agli EPA.

Le promesse mancate

Nessuna delle promesse formulate nel corso degli incontri del G8 si è materializzata. Ad esempio a Genova venne annunciato il Fondo Globale per la lotta all'Aids, alla malaria e alla tubercolosi e i 7 paesi proponenti promisero di versarvi a regime 10 miliardi di dollari l'anno. Ma sinora in tutto ne sono stati versati 3 e l'Italia brilla (negativamente) per aver messo in bilancio 2005 la sua quota di 100 milioni non versata nel 2004, riducendo a 80 quella di quest'anno (anche se a breve partiràƒ una campagna pubblicitaria per sensibilizzare i cittadini italiani sulle attivitàƒ di questo fondo).

Ma il problema non è solo di incapacitàƒ a mantenere le promesse, il problema è che aiutare l'Africa e in senso più generale, aiutare tutti coloro che faticano a sopravvivere nel nord e nel sud del mondo, è una missione che appare impossibile per i nostri attuali leader politici. Non si tratta infatti di destinare più fondi agli aiuti, aumentando ad esempio quel misero 0,15% del PIL che l'Italia vi destina. “Make poverty history”, fare della povertàƒ un ricordo del passato come recita la campagna internazionale lanciata anni fa da Oxfam, richiede che alcune regole oggi applicate in economia siano cambiate;  ichiede che si smetta di considerare il PIL come sistema di misura del benessere, richiede nuove regole per il commercio internazionale. In estrema sintesi richiede che prima degli aiuti si persegua una maggior giustizia.

La giustizia non è uguale per tutti

Ma la “trade justice” concepita dai nostri capi di governo è una giungla in cui le regole non sono affatto uguali per tutti, tenuto conto che non è neppure giusto che lo siano fra parti cosàƒÂ¬ diseguali. Sono più di vent'anni che viene ripetuto come un mantra che la liberalizzazione dei mercati e la progressiva riduzione del potere regolamentativo degli stati sono il mezzo milgiore per ridurre la povertàƒ . Addirittura l'attuale ciclo di negoziati gestito dall'Organizzazione mondiale del commercio ha formalmente come obiettivo proprio quello di aiutare i paesi più poveri ad integrarsi nell'economia mondiale ed uscire dalla loro condizione di miseria.

Liberalizzare, un buon affare per pochi

Ma l'esperienza insegna che la liberalizzazione non è una buona politica che purtroppo ha sfortunate conseguenze per una minoranza di persone nei primi anni di applicazione, come ci raccontano da anni diversi economisti. Gli effetti collaterali dell'apertura del mercato tessile le abbiamo comprese (forse) anche noi italiani e se USA ed UE hanno potuto correre ai
ripari facendo leva sul loro potere, chi è in povertàƒ e avrebbe più bisogno di aiuto deve solo arrangiarsi. Le politiche di liberalizzazione dei mercati, cosàƒÂ¬ come sono state attuate, sono politiche imposte dai paesi sviluppati e dalle istituzioni
internazionali per difende i rapporti di forza esistenti, mantenendo le popolazioni più povere nella loro condizione e sottraendo loro l'opportunitàƒ di cambiare.

Lo ha ben evidenziato anche uno studio commissionato da Christian Aid, redatto da alcuni esperti di econometria che hanno elaborato un modello economico per simulare che cosa sarebbe successo a 32 paesi tra i più poveri del pianeta se non avessero liberalizzato il loro mercato interno durante gli anni '80 e '90. Lo studio afferma che ai paesi dell'Africa sub-sahariana la liberalizzazione del commercio è costata 272 miliardi di dollari in venti anni perchàƒÂ© le importazioni sono cresciute molto più delle esportazioni ed hanno portato alla chiusura di molte attivitàƒ imprenditoriali aumentando la disoccupazione. Questo ha significato meno opportunitàƒ per l'educazione, per la sanitàƒ , per gli investimenti infrastrutturali e per la creazione di nuove industrie. CiàƒÂ² che questi paesi hanno visto aumentare è stata solo la povertàƒ .

Il costo del libero commercio è ricaduto sulle fasce di popolazione più povere.

Nel 2000, l'Africa Sub-Sahariana ha perso circa 45 dollari pro-capite a causa delle politiche di liberalizzazione. Nello stesso anno, i paesi del continente nero hanno ricevuto un equivalente di 20 dollari pro-capite in aiuti. Un saldo negativo! Ma piuttosto che aumentare gli aiuti coprendo il buco dei 25 dollari mancanti al pareggio dei conti non è molto meglio evitare i 45 dollari totali di perdita?

Ce la faranno i nostri “eroi”?

La vera soluzione non è aumentare gli aiuti, quanto piuttosto smetterla con l'imposizione di regole che contribuiscono a perpetrare la povertàƒ . Per questo la battaglia decisiva per aiutare l'Africa e l'intero pianeta si sta giocando nei negoziati in corso a Ginevra, per questo saràƒ decisivo l'incontro ministeriale del WTO in programma a dicembre ad Hong Kong. Il futuro del continente africano si gioca più nel Doha round che nell'incontro scozzese del G8.

Ma è vero che i leader del G8, eccetto la Russia, sono i membri più influenti dell'organizzazione di Ginevra e potrebbero decidere di cambiare. Potrebbero annunciare l'impegno immediato a cancellare i sussidi agricoli all'esportazione che impediscono una vita dignitosa a donne come Abiba Gyarko, coltivatrice di pomodori nel Ghana che deve confrontarsi con la concorrenza dei pomodori in scatola made in Euope (vedi Internazionale 1/7 luglio 2005).

Potrebbero, quelli europei, annunciare la riforma di una politica saccarifera che premia le grandi aziende in un mercato  “feudale” di quote che ostacola paesi africani dove la canna da zucchero cresce senza fatica.

Potrebbero smettere ogni genere di pressione per ridurre i dazi sui prodotti industriali dei paesi poveri e cancellare regimi tariffari che favoriscono l'import di materie prime come il cacao, ostacolando prodotti processati, come il cioccolato.

Potrebbero rendere operativo quanto promesso nel 2001 a Doha in modo che l'accordo sulla proprietàƒ intellettuale, (il famoso TRIPS), diventi carta straccia quando la gente non ha medicinali con cui curarsi.

Potrebbero dire che l'agricoltura è un argomento che è meglio sia tolto dalla camicia di forza del WTO.

Potrebbero annunciare che nel negoziato sui servizi, a nessun paese saràƒ chiesto con insistenza di liberalizzare settori vitali come la distribuzione dell'acqua potabile, le scuole e i servizi sanitari.

Potrebbero rinunciare, nel medesimo negoziato, a continuare a premere per liberalizzare i mercati finanziari, accettando piuttosto che i diritti di movimento accordati ai capitali siano concessi ai lavoratori.

Dovrebbero rinunciare all'ipocrisia degli annunci retorici spiegando all'opinione pubblica che “make poverty history” chiede a tutti di cambiare qualcosa nel proprio stile di vita.

Ma state tranquilli, non lo faranno.

Roberto Meregalli
Beati i costruttori di pace – Rete Lilliput

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